Non c’è alcuna dichiarazione ufficiale, né politica né degli investigatori, in questo momento, che addebiti l’orribile attentato alla maratona di Boston a una matrice terrorista. O almeno che lo addebiti apertamente a una matrice fondamentalista islamica. Potrebbe essere anche l’azione di un pazzo o di un gruppo isolato: la capacità di fare enormi danni di un singolo individuo è attestata non solo dalla storia di Tim McVeigh, l’attentatore di Oklahoma City che fece saltare con un furgone un edificio federale uccidendo 168 persone, per ritorsione dopo l’assedio di Waco e contro il “governo tirannico”, ma anche, per venire in Europa, da quella di Anders Breivik in Norvegia. Oppure un attentato a opera della “Fratellanza ariana”, il gruppo apertamente neonazista che ha lasciato recentemente una scia di sangue in Texas. O di chissà chi altri: l’odio fomentato da una destra estrema e impazzita verso il governo “centralista” di Washington ha assunto connotati pericolosi.
La cautela, la prudenza, la sensibilità sono d’obbligo nel paese dell’11 settembre e nello sforzo compiuto dal presidente Obama, nel dare la caccia a bin Laden e ai terroristi, di offrire una sponda a ogni processo democratico in Medioriente.
E pure, è tempo di bilanci. Non perché la linea politica di Obama sia stata un disastro, ma perché è stata poco determinata o ha subito una serie di rallentamenti e incertezze per l’opposizione repubblicana. Così, per il ritiro delle truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan, così per l’impegno a mezzo servizio nella caduta di Gheddafi, così per le proteste contro la Siria, così per la chiusura di Guantanamo. L’utilizzo dei droni invece degli “stivali” sul campo si è rilevato importantissimo nel risparmiare vite di soldati, ma ha prodotto una serie orribile di stragi, con l’uccisione di donne e bambini — a cui, forse, può non essere infondato far risalire, per vendetta o punizione, anche le bombe di Boston.
La verità è che la guerra contro l’Iraq e l’Afghanistan si è dimostrata un fallimento, le sanzioni minacciate contro l’Iran si sono rivelate un fallimento, l’incertezza contro Gheddafi prima e la Siria dopo si sono rivelate un fallimento — contribuendo paradossalmente a un rafforzamento di movimenti guerriglieri fondamentalisti, franchising di al Qaeda —, la chiusura di Guantanamo, pur promessa, non si è realizzata.
A Guantanamo, la prigione americana dove sono detenuti i sospettati di un qualunque rapporto con al Qaeda dopo l’11 settembre, dagli inizi di febbraio più di 40 detenuti sono in sciopero della fame. Uno di loro, Samir Naji al Hasan Moqbel, che attraverso i suoi legali e un’associazione umanitaria è riuscito a far conoscere la situazione del carcere al «New York Times», è arrivato a pesare meno di cinquanta chili, ma ce ne sono altri che stanno già sotto i quaranta. Al Hasan Moqbel, uno yemenita, sta a Guantanamo da 11 anni ma contro di lui non è mai stata sollevata alcuna accusa specifica e non è mai stato sottoposto a processo e solo un “trattato” tra gli Usa e lo Yemen impedisce che ritorni a casa. Tutti e quaranta i detenuti in sciopero della fame sono sottoposti a alimentazione forzata, con tubi e sonde, dopo essere stati legati ai letti. Il che non solo non impedisce un deterioramento della loro salute ma è una delle tante umiliazioni a cui sono sottoposti.
È davvero difficile parlare di questo proprio nel giorno delle bombe a Boston.
Eppure, le cose hanno un legame, un intreccio. Eppure, sono convinto che la forza di un paese, la storia di una democrazia, il coraggio di un presidente stiano proprio nel sapere affrontare con decisione questi momenti difficili, senza rinunciare a speranze, promesse, ideali.
Nella disperazione per le bombe di Boston, nella determinazione a sconfiggere il fondamentalismo terrorista, non può non starci anche la fiera rivendicazione dei diritti.
Nicotera, 16 aprile 2013