Chi vince e chi perde, con il ritorno in campo del Cavaliere

SILVIO-BERLUSCONIÈ un gioco sciocchino, di nessuna credibilità e senza alcuna verificabilità. Tre minuti di passatempo. Ovviamente, da ciascun campo all’altro, ognuno potrebbe invece spostare dei nomi, a seconda del proprio punto di vista. Potrebbe, anche, allungare la lista, in ciascuna delle due liste. E questo, forse, è più divertente.
Tra i vincitori indiscussi del ritorno in campo del Cavaliere, io metterei Matteo Renzi. Perché mai e poi mai al Cavaliere sarebbe passato per l’anticamera del cervello di riaprire i giochi sulla sua persona, se il sindaco di Firenze avesse vinto le primarie. Contro Renzi, Berlusconi non si sarebbe mai battuto, e non perché — polpetta avvelenata — Renzi sia una sua costola, ma al contrario perché Renzi avrebbe avuto dalla sua troppi vantaggi, nella polarizzazione. La sconfitta di Renzi alle primarie, e la vittoria di Bersani, ha spalancato le porte a Berlusconi e alla sua campagna anticomunista, che difficilmente avrebbe potuto usare contro il giovane sindaco di origine boy scout, nonché vincitore di una sua “Ruota della fortuna”. È il terreno che gli è proprio, questo dell’anticomunismo, che sembra stantio, ammuffito, ma che in Italia può contare su uno zoccolo duro tra il 15 e il 20 per cento, d’acchito. Con Bersani può funzionare, con Renzi sarebbe stata una pistola scarica. Renzi si ritrova intatto un tesoretto che potrà usare in un altro momento.
Vince anche Beppe Grillo: gli basterà mostrare e additare i volti della competizione — lo psiconano e il segretario del Pdmenoelle — per tirare fuori tutto il repertorio ormai collaudato. Senza Berlusconi, la campagna di Grillo forse sarebbe stata più politica, più sui contenuti, più necessaria di dettagli, di proposte: un terreno scivoloso e ancora dai contorni fumosi, poco illuminato dagli slogan e dalle boutade. Incalzare Bersani da solo, senza cioè mostrare la coppia vetusta che si contenderà l’Italia dei giovani, sarebbe stato più difficile. Con la scesa in campo di Berlusconi, viene a mancare a Grillo il bersaglio di Napolitano, anche lui preso in contropiede, ma sia il presidente della Repubblica, che il premier tecnico Monti, che decida di partecipare in prima persona o che continui a girare come il fantasma di Elsinore nel Palazzo, sono comunque il poker del mazzo da prendere a sassate comiche.
Vince anche Andrea Riccardi, che è il vero Grande Tessitore del momento, che ha lentamente istillato momenti di visibilità della sua persona e del suo operato, che si è ritagliato un ruolo leale al governo ma pure defilato, e che ha da tempo capito che il centro di Casini è troppo fragile, e troppo sbreccato e liso, per poter davvero essere un polo di attrazione, obbligato a un ruolo di supplenza e di subordinazione al Pd di Bersani. Eccolo quindi, l’uomo del Vaticano — capace di far polemica con Fini perché troppo radicale sui temi della famiglia e della cittadinanza — tessere la sua tela, fra Montezemolo, Bonanni, Pezzotta, le Acli e l’Udc, insomma tra chi ha una buona faccia presentabile ma non porta voti e chi ha una faccia consunta ma buoni bacini elettorali. La scesa in campo di Berlusconi rafforza la sua ipotesi di Centro, allontanandolo dal centrodestra, che con Alfano si sarebbe presentato quanto meno in via di rinnovamento, ma non schiacchiandolo sul centrosinistra: Riccardi pensa in grande, pensa alla nuova centralità dei cattolici nel prossimo scenario politico, tra una destra antieuropeista e una sinistra che vorrebbe cambiare l’agenda, anche se non sa come fare. E a questo non potrebbe bastare di certo uno come Casini, una forza ormai minoritaria, condannata a pencolare intorno la soglia di sbarramento. Il suo progetto prende slancio, il Vaticano ha già preso le distanze dal centrodestra.
Perde l’Europa. Non quella che noi vorremmo, e forse neppure quella che volevano i suoi padri fondatori, ma quella che è: l’Europa di van Rompuy e di Barroso, di Trichet e di Juncker, l’Europa di Bruxelles e l’Europa germano–centrica, della burocrazia mandarina che parla una omologa lingua dello spread e delle ricette economiche dirigiste e recessive, quella che si scandalizzò quando Papandreu propose di indire un referendum tra il suo popolo per vedere quale prospettiva avrebbero appoggiato, sostenuto, e lo fece fuori politicamente, commissariando la Grecia. Quella che ha fatto fuori Berlusconi, impedendoci anche di votare e voltare democraticamente pagina e imponendoci un commissario, verso cui loro sono certamente grati per il lavoro compiuto e vorrebbero tenere in modo da modificare l’interim in un perpetuum. Perde quest’Europa che è costretta a scendere in campo apertamente, visibilmente e a mostrare quanto le sue ricette obbligate per uscire dalla crisi siano in realtà un disegno politico ben preciso. E opinabile.
Perde Giorgio Napolitano, il cui “baluardo istituzionale” si rivela per quel che è, un accondiscimento e un accomodamento alle volontà potenti dell’Europa di cui sopra, di cui con ogni probabilità si sente parte, e che ha facilitato — eccolo il suo ruolo, con neologismo ora di moda: un facilitatore — nel far fuori Berlusconi, nominando in 48 ore senatore a vita Mario Monti, proteggendolo in tutti i modi, sospendendo la regola democratica del voto, adoprandosi fuori da ogni regola per istituzionalizzare il governo “eccezionale” di Monti, che di eccezionale ha solo il fatto proprio di essere fuori dalle regole.
Perde Luca Cordero di Montezemolo, che ci ha già annoiato con questo suo annuncio–non annuncio di partecipare direttamente alla battaglia politica e che poteva sfregarsi le mani per ereditare fette consistenti di un elettorato di destra laica in libera uscita senza troppo faticare — cosa che gli è connaturale — e che adesso è in ripensamento perché abbarbicarsi all’eterno rampollo della ricca borghesia non è che sia proprio il massimo, e quindi dovrebbe sudare un pochino e questo proprio non gli è congeniale, che lo spettinerebbe. Se davvero vorrà trovare un ruolo nel prossimo scenario politico dovrà legarsi ai cattolici, a quelli puliti, certo, ma pure un po’ integralisti — alla Riccardi, per capirci —, e ce ne vogliono di sudari.
Perde Nichi Vendola che aveva rinunciato all’elaborazione di una proposta autonoma e definibile per innestarsi nel Pd di Bersani in un monco ressemblement di sinistra che garantiva la relativa sicurezza della sopravvivenza parlamentare sperando di avervi una qualche influenza. E che invece si ritrova schiacciato in un neo antiberlusconismo che va dalla Merkel a Bersani, dal Vaticano a Monti e che ci vogliono proprio fior di narrazioni per definire progressista — nel senso che poteva anche andar bene stare dalla parte del progressismo riformista contro un liberismo catastrofico, ma così. E che sente anche di diventare il capro espiatorio di questo fronte, e è tentato di togliere il disturbo, e uno si chiede, scusa ma davvero non aveva capito?

Nicotera, 12 dicembre 2012

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