Le primarie del Pd? Un disastro, basta confrontarle con quelle del 2005

A parte «la Repubblica», dove sta prevalendo contro l’ipermontismo pasdaran di Scalfari la tesi più articolata di Ezio Mauro più favorevole a Bersani come prossimo primo ministro [con Monti, eventualmente, presidente della Repubblica] – nell’ipotesi di costituire un asse socialista franco-italiano che faccia da contraltare e ribaltamento rispetto al predominio di Merkel e Cameron –, dove quindi si va enfatizzando il risultato con una consapevolezza e una strategia più politica, mentre tutti gli altri seguono il “taglio Sky” del fenomeno antropologico e sociale da americanata modernizzante, a parte «la Repubblica», che si capisce cioè, non si sa dove dovrebbe stare questo trionfalismo che gronda.
Alle primarie dell’Unione nel 2005 – dove si contrapposero sostanzialmente Prodi e Bertinotti, ma c’erano in campo anche Mastella per l’UdeUr e Pecoraro Scanio per i Verdi, nonché Scalfarotto, outsider mancato, e persino la Panzino per i movimenti sociali più radicali, in uno spettro di posizioni più ampio e autorevole di quello che stavolta è stato sostanzialmente un congresso di partito – votarono 4 milioni e 311.149 elettori, un risultato a cui tutt’al più [i dati, al momento, non sono definitivi] si potranno avvicinare queste di Bersani e Renzi. Il voto raccolto da Bertinotti fu di circa il 15 per cento, cioè non molto diverso da quello che ha raccolto Vendola. Anche la distribuzione regionale sembra ripercorrere quelle primarie: al Sud, allora, votarono abbondantemente per Mastella la Campania, la Calabria e la Sicilia. E se si guardano i voti di adesso – in Calabria, per dire, che è una regione dove il Pd vive da tempo vita travagliata, con commissariamenti e trasmigrazioni, Bersani stravince perché si porta dietro l’esile apparato, ma Renzi probabilmente eredita e raccoglie il voto centro democristiano –, le cose non sono poi cambiate granché.
L’unica vera novità di queste primarie, e del sistema partitico italiano, è la forza che Renzi è riuscito a mettere assieme, una forza che si configura a tutti gli effetti come autonoma dal Pd. Renzi è in grado di rappresentare un soggetto politico tutto nuovo, praticamente da solo, mentre a Bersani è rimasto in mano mezzo partito. Mi sembra cioè che rispetto al 74-75 per cento raccolto da Prodi nel 2005, questo slittamento verso il ballottaggio a cui è costretto Bersani – saranno pure una vittoria della democrazia e della politica – ma significano che la sua “presa” è più che dimezzata.
Con mezzo partito non si diventa primi ministri, soprattutto non lo si diventa con l’idea di “rovesciare” l’agenda Monti sui piedi dell’equità e del lavoro, considerando pure che dentro quel meno di mezzo partito che lo sostiene con l’agenda Monti, invece, ci va a nozze. Bersani ne esce quindi un po’ indebolito, anche se rafforza la sua ambizione da primo ministro. Quel tanto indebolito per cui non potrà che immaginare una “tutela” che lo affianchi, se le sue ambizioni si coroneranno.
Mi pare che per il ribaltamento dell’agenda Monti ce ne corra.

Nicotera, 26 novembre 2012

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