Sull’Huffington post dell’Annunziata, Francesco Raparelli – ricercatore precario e saggista nonché animatore di iniziative e aggregazioni sociali di movimento a Roma –, salutando le proteste studentesche del 5 ottobre, si chiede come mai il paese sia fermo e incapace di rivoltarsi alla pax montiana. E individua le cause dello stallo di movimento nella fine del berlusconismo e nella cooperazione che alla gestione del passaggio epocale stanno dando fuorvianti calcoli di Pd e Cgil. E rimanda tutti al prossimo appuntamento del 27 ottobre – giornata del No Monti day –, in cui il “popolo di sinistra” dovrebbe ritrovarsi unito e conflittuante.
Ora, se c’è proprio un modo per spegnere i falò di opposizione che in un solo giorno da Palermo a Milano si sono accesi, è proprio questo: sminuire il significato di ieri, a petto di ben più consistenti iniziative che vengono citate – quella della Fiom del 16 ottobre e quella del 14 dicembre dello scorso anno – e rimandare a un piano “superiore”, più complesso, maturo e completo dove ci saranno “gli operai” e le rappresentanze.
Delle due l’una: o la giornata di ieri è un “solito” rituale che a ogni inizio anno gli studenti medi fanno – occupazioni, assemblee, qualche passeggiata per la città –, cose che presto si spengono; o la giornata di ieri cade dentro un groviglio di passaggi della crisi e del suo governo che la rende una frattura importante e significativa. In sé, non in attesa della forza e della maturità operaie e delle rappresentanze.
Io sono per questo secondo giudizio. A partire da un altro giudizio: che lo stallo dei movimenti – che Raparelli evoca – è dovuto anche a un errore politico, che Raparelli non menziona, ossia alla rinuncia a proseguire già dentro le università e le città a un percorso di lotta in nome di una complessa alleanza col lavoro e le sue rappresentanze, e che in nome di questa alleanza rincorsa i movimenti e alcune sue importanti aggregazioni abbiano denunciato quelle poche e preziose occasioni di rivolta che si sono già manifestate, brutalmente e rabbiosamente quanto si voglia.
Questa ipotesi dell’alleanza studenti-operai tutta giocata poi dentro un puzzle di sponde tra pezzi di Fiom, di Cgil, di Sel, di centri sociali, togliendo o mettendo ogni volta qualche tassello nella ricomposizione, che rimanda al mitico biennio rosso ’68-69 sembra non tenere conto – e stupisce – del “dato politico”: quella strategica convergenza di lotte si ebbe a partire dalla rottura operaia della rappresentanza, dal costituirsi in movimento autonomo e in forme indipendenti dentro le fabbriche e dentro il lavoro di una nuova soggettività operaia.
In assenza di questa – non solo dentro la fabbrica, ma dentro la società, frammentata, individualizzata, o istituzionalizzata – ciascuno faccia la propria lotta, ciascuno segua la propria rivoluzione.
Non c’erano bandiere alle manifestazioni di ieri: non c’erano le solite bandiere rosse, di partitini e microfrazioni. C’erano altri simboli, o solo striscioni e slogan e festosità varie, oltre a numerose incazzature varie.
Questo, presumo, non sia una esclusione, ma una ricerca e un’affermazione di propria identità.
Autosufficiente. Gli studenti medi – e perché non dovrebbe essere così? – ieri hanno affermato una propria sufficienza alla lotta. Contro le orribili iniziative del governo dentro la scuola, certo. C’era chi parlava di cessi e chi parlava di programmi. Bene. C’era chi parlava contro il governo della crisi. Bene. E c’è stato chi ha bruciato – a Palermo – le tessere elettorali: solo pochi di quegli studenti andrebbero a votare. Ma questo dichiararsi estraneo al paese, questo rifiuto nel diventare cittadini di questo paese, e ai suoi meccanismi di rappresentanza – c’è stato chi lo ha gridato forte e chiaro – a me sembra un passaggio importante.
Non è stata una manifestazione solo contro la scuola.
È stata la prima manifestazione contro il governo Monti e contro la rappresentanza politica. Tutta.
Nicotera, 6 ottobre 2012