Pena di morte per Breivik? Death penalty for Breivik?

Il 16 aprile è iniziato a Oslo il processo contro Anders Behring Breivik. Il 22 luglio dello scorso anno, dopo aver fatto esplodere un’autobomba nel centro di Oslo, provocando la morte di otto persone, Breivik arrivò sull’isola di Utoya, dove si svolgeva un campo estivo giovanile laburista, e cominciò a sparare. Non si fermò finché arrivarono le forze speciali: dei sessantanove morti, trentaquattro avevano fra i 14 e i 17 anni, ventidue erano fra i 18 e i 20. La questione centrale per la giuria è stabilire se Breivik sia o meno sano di mente: Breivik potrebbe finire in un istituto psichiatrico o, se verrà riconosciuto capace di intendere e di volere, la pubblica accusa potrebbe chiedere, oltre il massimo di 21 anni previsto dal sistema giudiziario norvegese, una “condanna di detenzione preventiva” e restare in carcere indefinitamente di fronte all’alto rischio che compia che compia altre violenze. Breivik non sembra molto preoccupato dalla sentenza: trascorrere la vita in prigione o morire per il suo popolo sarebbe per lui “il più grande onore”. Breivik, che si è presentato in aula in abito scuro e camicia bianca, molto ossessionato dai suoi polsini – Geir Lippestad, il suo avvocato difensore, ha detto che «questo è il modo in cui ci si presenta in aula in Norvegia, qui non ci sono tute arancioni e quel genere di cose» –, sin dal primo giorno ha iniziato il suo show, dichiarando di non riconoscere l’autorità del tribunale che lo sta giudicando perché ha un mandato dai partiti politici che sostengono il multiculturalismo e ha rivendicato la strage, in nome della “legittima difesa”: i ragazzi uccisi a Utoya non erano “bambini innocenti ma attivisti politici”. In aula, sono stati ricostruiti i momenti sull’isola, e Breivik con estrema freddezza ha raccontato che molti dei ragazzi erano paralizzati dal panico, immobili mentre lui continuava a cambiare i caricatori e sparare alle loro teste: «Non scappavano. Era davvero strano, qualcosa che non si vede mai in tv». Buona parte del suo “addestramento” l’ha compiuto con lunghe sedute di playstation con World of Warcraft e Call of Duty: Modern Warfare.
Il sistema norvegese sembra molto fiero di mantenere la situazione dentro i canoni di un normale processo giudiziario, senza stravolgere alcuna delle sue regole: considera proprio questa “freddezza” la forza e la resistenza della loro democrazia di fronte alle deliranti affermazioni di Breivik e anche di fronte all’insopportabilità di quello che è accaduto. Sembra davvero esserci una terra di nessuno in cui Breivik e i suoi giudici si incontrano. Lui, che ha dichiarato di avere indossato una sorta di “maschera antiemozionale” che trattenga lontano ogni coinvolgimento in quello che racconta, che considera orribile e crudele tanto quanto necessario – «uccidere settanta persone può evitare una guerra civile» –, taglia di una buona metà la lettura del suo intervento, quando richiesto dalla Corte; gli avvocati difensori delle vittime vanno a stringergli la mano prima che inizi il processo. Non è solo un atteggiamento della Corte e dell’aula di giustizia. Thomas Mathiesen, un professore di Oslo, ha detto che «il sistema non è orientato alla vendetta e che occorre dare un trattamento dignitoso anche al più orribile dei criminali. E questo è uno dei valori fondamentali norvegesi». Oeystein Stoltenberg, un 59enne residente di Oslo, ha dichiarato che «dovremmo considerarci fortunati per poter fare questo processo e mettere a nudo i suoi pensieri». Nils Christie, un criminologo, ha scritto un editoriale in cui sostiene che il modo con cui la Norvegia ha risposto all’attacco — mostrando più amore l’uno per l’altro contro l’odio di Breivik — lo rende orgoglioso del suo paese. Erik Sonstelie, padre di uno dei sopravvissuti, dice: «Ci sono delle forze oscure, come i trolls delle vecchie leggende, che vivono nelle montagne e diventano sempre più forti e possono distruggerci, ma quando sono esposte alla luce si indeboliscono». Randi Johansen Perreau ha perso il figlio di 25 anni a Utoya: il processo, spera, «ci permetterà, come nazione, di comprendere cosa è accaduto e ricominciare a guardare verso il futuro». Ma non tutti la pensano così: il terzo giorno, un giudice popolare è stato ricusato dopo che un quotidiano aveva trovato su un social network una sua dichiarazione per la pena di morte.
In Italia assistiamo al processo con pena ma distanti. Possiamo solo sperare, e forse ne siamo convinti, che non accada mai da noi quello che è accaduto a Utoya. Provo a chiedermi, se mio figlio fosse fra le vittime, come reagirei riguardo a un processo, quali possano essere i confini tra i sentimenti personali di chi ha perso tutto, forse ogni ragione di vita, e le ragioni di una collettività che non vuole smarrire le proprie forme di convivenza, le proprie regole, cercando in queste la forza. Sento che è un ragionamento che non regge, è davvero impossibile e persino ingiusto o indecente volersi immedesimare. Provo ammirazione per la forza d’animo di quegli uomini e quelle donne norvegesi, per la solidità della loro società. Ma mi chiedo se piuttosto proprio di fronte alla configurazione del Male, all’incarnazione di qualcosa che è oscuro e razionale nello stesso tempo, fra noi e assolutamente lontano da ogni forma di umanità e socialità, non si debba – per la sopravvivenza stessa delle passioni e delle ragioni che ci tengono insieme – uccidere a nostra volta. Non in assoluto, non come “regola”, ma rispetto questo specifico orrore – la ferocia di quelle esecuzioni a freddo, di quei colpi alla testa –, qualcosa che va al di là di ogni idea di crimine. Non ci sarebbe mai risarcimento, e la vendetta non potrebbe mai estinguere il dolore e la pena infiniti dei singoli e neppure le ferite di una società. Non avrebbe neppure una funzione esemplare, ne sono sicuro: il Male si riproduce. Forse, non sentirei alcun sollievo, neppure un momentaneo sollievo. Anzi, porterei addosso un senso di oscurità e un riverbero del Male. Io, però, continuo a volere con tutte le mie forze che Breivik – il suo corpo, la sua faccia, le sue mani – scompaia per sempre dalla faccia della terra.

Nicotera, 23 aprile 2012

Questa voce è stata pubblicata in società e contrassegnata con , , , . Contrassegna il permalink.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...