Pillole (di saggezza?)

Pillola uno: il nazionalismo – che è fondamento delle destre nel mondo, e che corrobora e sostanzia le intenzioni di questo governo – considera il proprio popolo come un tutto unitario, dove non ci sono classi e differenze di proprietà e possesso: si è tutti parte della stessa nazione, dello stesso unico Stato. La proprietà è riconosciuta ma, al contrario del liberalismo, essa non è riconducibile all’individuo in quanto possessore di beni da immettere, valorizzare o spendere nel mercato (fossero futures o la propria forza-lavoro) ma allo Stato, all’accumulazione della potenza dello Stato. La proprietà individuale è transitoria e revocabile. È lo Stato che sovrintende le nostre proprietà e gli scambi tra di loro: lo Stato è l’utilizzatore di ultima istanza. Lo Stato è contemporaneamente religioso e laico (in alcuni casi è proprio teocratico) – la sua religione di Stato è la patria, benedetta da dio. La sua cellula primaria è la famiglia (non, un’istituzione), anch’ella benedetta da dio.

Pillola due: Il nazionalismo di questo paese ha il suo fondamento nel Risorgimento, anzi meglio: nel mazzinianesimo, che il Risorgimento è stato tante cose (il garibaldinismo, a esempio, è cosa diversa, come d’altronde il cavourismo). La differenza, lo scarto con il nazionalismo del Novecento – che poi aderì al fascismo e lo sostanziò – è che Mazzini pensava ancora all’individuo proprietario e a un capitalismo “artigianale”, mentre il fascismo fu il motore di una modernizzazione capitalista attraverso lo Stato. Mazzini, autenticamente repubblicano e fortemente anti-clericale, fautore peraltro dell’azione diretta e della violenza politica come mezzo, fu ambiguamente letto e assorbito come nume tutelare dal fascismo. Ma la differenza sta in questo: Mazzini, uomo dell’Ottocento, pensava alla nazione come unitarietà del popolo, il fascismo comprese e attuò l’importanza moderna dello Stato. Come d’altronde, tutto il Novecento, declinandolo in varie forme.

Pillola tre: il nazionalismo di metà dell’Ottocento europeo – per capirci, quello della “primavera dei popoli” del ’48 che prese avvio a Palermo – era perciò in buona misura democratico e progressivo, perché pensava e puntava allo sviluppo della società, imbrigliata, compressa da monarchie e aristocrazie retrograde e conservatrici. Il nazionalismo del Novecento europeo è stato invece in buona misura reazionario, perché pensava e puntava a un’idea di Stato sopra e contro la società. Tutt’altra cosa, nella seconda metà del Novecento, il nazionalismo è stato nei processi di liberazione dal colonialismo occidentale, in Africa e in Asia, dove invece si è caratterizzato per forti elementi di emancipazione. Lo Stato perciò è stato ovunque modernizzatore dei processi di produzione e quindi nella formazione delle classi – con una differenza profonda: da una parte, processi di socializzazione dello Stato, dall’altra processi di statalizzazione della società. Nelle società liberiste, con un ruolo di “regolazione” dello Stato, le classi sono entrate in conflitto tra loro per la distribuzione della ricchezza prodotta, e questo stesso conflitto è stato motore di democrazia e innovazione; nelle società nazionaliste, ovvero totalitarie, con un ruolo “possessore” dello Stato, non ci sono classi e non c’è conflitto possibile, con una caduta del saggio di democrazia e innovazione. L’unico conflitto possibile nelle società nazionaliste è verso il “fuori” – che siano “stranieri” (anche interni) o che siano altre nazioni.

Pillola quattro: oggi siamo di fronte a una crisi profonda della forma-Stato, indebolito, ferito a morte dalla globalizzazione economica. Globalizzazione che ha, anch’essa, caratteri differenziati: di un enorme spostamento delle produzioni e della ricchezza dai paesi liberisti verso paesi nazionalisti, con un “curioso” processo di similitudine: l’assenza di distribuzione della ricchezza, per cui le élite, le classi dirigenti, di entrambi hanno processi di sovra-accumulazione, mentre si sono arrestati i processi di distribuzione della ricchezza; nei paesi liberisti perché si produce altrove, e nei paesi nazionalisti perché rimane in loco e in alto. Ma è la crisi della forma-Stato – che non ha più alcuna funzione di regolazione del mercato e dei conflitti, visto che l’uno e l’altro sono “esterni” – che provoca qui la crisi della democrazia, non è il viceversa. Alla crisi della forma-Stato, le destre rispondono con il principio di sovranità; le sinistre, invece, si sentono parte dei processi di sovra-statalità (come in Europa) o della globalizzazione. Ne viene che le destre “riprendono” l’agire politico verso il popolo, mentre le sinistre si stringono alla tecnocrazia globale che sovrintende la globalizzazione. La rifondazione della sovranità passa attraverso la rifondazione dello Stato che riesuma e rinvigorisce il nazionalismo: si potrebbe dire, il processo opposto a quello dell’Ottocento. La debolezza dello Stato è individuata in una democrazia inconcludente – avviluppata ormai nelle sue formalità regolamentari e il cui unico ruolo è di essere da supporto alla tecnocrazia globale – e occorre perciò una democrazia decidente: Stato e nazione si consustanziano nella figura del presidenzialismo. Il rapporto leader-popolo che è proprio del populismo e della politica populista (che, si potrebbe dire, è l’unica che c’è) prende qui forma istituzionale nel rapporto presidente-Stato-nazione.

Pillola cinque: le due enormi crisi che abbiamo vissuto e viviamo ancora – quella della pandemia e quella della guerra – non si iscrivono nella sequenza di crisi “indotte” dalla globalizzazione che hanno caratterizzato la fine del Novecento e gli inizi del Duemila fino a quella finanziaria del 2007-2008, ma ne sono invece “prodotte”. La globalizzazione, l’è sciupa’ – è scoppiata. Paradossalmente, la globalizzazione non ha più “spazio” (quello proprio, in cielo, è ancora da venire, con buona pace di Musk che pure ne è il “profeta visionario”) – e la conquista degli spazi è il suo motore. Non avendo più spazi da conquistare lo sfruttamento dell’“unico” spazio che le rimane – ovvero il nostro stesso pianeta – è ancora più intensivo e estrattivo, e vale per i liberismi come per i nazionalismi. Inoltre, i nazionalismi intendono avere “fette” più consistenti della ricchezza prodotta o attrarre e conquistare a sé spazi che sono assoggettati al liberismo: le politiche nazionaliste si vanno, cioè, trasformando in politiche imperialiste, che è un altro modo per far fronte alla globalizzazione e alla sua crisi. Le guerre “regionali” diventano, perciò, obbligatoriamente guerra globale, “scontro di civiltà”, che sia l’Ucraina o che sia Taiwan. Questo è lo scenario.

Pillola blu o pillola rossa: qualunque “immaginazione politica” oggi non può che tornare ai Risorgimenti. Nazionali, europei, globali. Ovvero: tornare alla costituzione delle forme-Stato. Tornare, per quel che ci riguarda, alla “forma nazionale” e alla “forma sovra-nazionale” per come si sono date, all’Italia e all’Europa. Tornarvi per re-inventarli. La risposta alla crisi della globalizzazione non sta nella nazione, non sta nello statalismo, non sta negli imperi: non è più possibile un ruolo “progressivo” dello Stato, né nei liberalismi né nei nazionalismi; si può solo intraprendere “l’esodo” dallo Stato. E non sta, la risposta, in una intensificazione dello sfruttamento del pianeta e non sta nelle guerre. Sta piuttosto nella ripresa di un agire politico che riparta dalle aree regionali e dalle loro indipendenze, dai conflitti tra le classi per la produzione e distribuzione della ricchezza prodotta, da una forma istituzionale repubblicana, dal federalismo.

29 ottobre 2022.

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