
Qualche anno fa, in un rally a Houston in Texas, in appoggio alla candidatura di Ted Cruz, Trump – era presidente in carica – facendosi campione della lotta “alle città globali”, strillava: «You know what I am? I’m a nationalist». E mentre la folla acclamava, ha continuato: «I democratici radicali vogliono portare gli orologi indietro. Ripristinare il comando dei globalisti corrotti e assetati di potere. You know what a globalist is? Sai cos’è un globalista? Un globalista è una persona che vuole che il globo stia bene, e non si preoccupa più di tanto del nostro paese. And you know what, we can’t have that. E sai una cosa? Non possiamo permettercelo. I’m a nationalist. Nationalist. Nothing wrong. Use that word. Use that word».
Ernesto Arajuo, lunga carriera diplomatica alle spalle, ministro degli Esteri del presidente del Brasile Jair Bolsonaro, scriveva così nel suo blog Metapolítica 17 – CONTRA O GLOBALISMO: «Quiero ayudar a Brasil y al mundo a librarse de la ideología globalista. Globalismo es la globalización económica que pasó a ser comandada por el marxismo cultural». Ecco, la relazione fatale: globalismo e marxismo. Araújo descrive il “globalismo” come un “sistema antihumano y anticristiano” e ovviamente odia «el tercermundismo automático, la adhesión a las discusiones abortistas y anticristianas en los foros multilaterales, y la destrucción de la identidad de los pueblos mediante la inmigración ilimitada». Infine, è certo che «la fe en Cristo significa luchar contra el globalismo, cuyo objetivo final es romper la conexión entre Dios y el hombre, para convertir al hombre en esclavo y a Dios en irrelevante».
Questa è la destra del mondo: nazionalista, sovranista, cristiana (islamista, o quel che l’è) perché anti-globalista perché anti-marxista. E sta vincendo, ovunque.
Il fatto proprio è che la destra sa il fatto suo e ha ragione: la globalizzazione è marxista – per quella lettura propria del marxismo che vede solo nello sviluppo del capitale, delle sue forze produttive, del general knowledge e dei suoi mercati, ovvero delle sue stesse contraddizioni (la prima: liberarsi dal lavoro salariato), la possibilità di immaginare, “vedere”, costruire il comunismo.
Questo è il “grande gioco” del mondo oggi: da una parte la globalizzazione, dall’altra i nazionalismi. E non solo in termini “globali”, geo-politici, ma dentro ogni nazione, ogni paese. La stessa pandemia – una delle più terribili crisi che abbiamo dovuto affrontare – rispecchia questa contraddizione, come quell’enorme fenomeno delle migrazioni nel mondo, che si leggono sempre come una condanna, una sciagura ma che, dal lato dei migranti, sono invece sempre una fuga dalla miseria verso le potenti illusioni di opportunità, qualcosa verso cui vale la pena mettere in gioco la propria vita; e, ovviamente, la guerra in Ucraina e i venti di guerra nel Mare cinese. Non c’è “multipolarismo” possibile in questa contraddizione tremenda, fatale.
Non c’è multipolarismo possibile perché il “sistema russo”, e quello cinese e quello indiano o quello turco – per dire dei più potenti antagonisti della globalizzazione – sono sistemi “chiusi”, destinati solo a essere potenze regionali, non universali, anche a mezzo della conquista militare: non solo non sono “sistemi economici” alternativi al capitalismo, ma non sono portatori di diritti universali come lo è stato il capitalismo: sono, appunto, sistemici – non ci sono “individui” e “classi”, ma “la nazione” (o l’impero). Sono sistemi basati sull’unità, non sulla molteplicità – sono “l’uno”: lo Stato, il Partito. La società intera finalizzata alla “produzione di potere” dello Stato. Hegeliano, ma non più borghese: social-fascista. Non di un ceto, una classe, ma di una casta politica. E del popolo.
La Russia vive di una “economia parassitaria” basata sulle enormi ricchezze del suo sottosuolo: gli oligarchi, che formano la classe dirigente, il tessuto connettivo di questa produzione parassitaria ricordano gli aristocratici latifondisti della Sicilia, eredi del feudalesimo e della sua struttura economica di base: il feudo. Affidato a campieri e gabellotti, senza cura del proprio feudo, l’unica aspirazione dei latifondisti aristocratici era spendere e spandere a Napoli o Parigi – dove, insomma, c’era “vita” – in “capricci” le quantità enormi di ricchezza che arrivavano loro, proprio come gli oligarchi russi, che posseggono yacht grandi come città, acquistano interi quartieri a Londra o Francoforte, comprano squadre di calcio europeo: non sanno più come buttare via i loro denari. Come i petrolieri arabi. Non creano ricchezza – la distruggono.
Questo nazionalismo imperiale è diventato aggressivo con la guerra di Putin in Ucraina: questo anti-globalismo è diventato aggressivo. È anche ragionevole pensare che esso si senta minacciato, tanto da intraprendere una “guerra preventiva”, che tale è la guerra in Ucraina: ma minacciato non dall’espansione a est della NATO, ma dall’espansione a est del capitalismo, dalla crescita interna di una “tendenza” – anche in balbettamenti politici sulla “democrazia” – al capitalismo, all’occidente, alla globalizzazione. La sua fine, la sua morte. Gli aspetti “geopolitici”, quelli delle aree di influenza, sono secondari o suppletivi: il problema di Putin è schiacciare ogni opposizione interna, ogni “tendenza” al capitalismo. Che è anti-cristiano, anti-slavo, anti-genere: ciò di cui invece il suo “sistema” – oligarchico, latifondista, parassitario – è portatore: un mondo immobile. Proiettato nel passato, nei suoi “valori”: Dio (Allah, o chi per lui), Patria, Famiglia. Questa è la sua “linea rossa”, il confine invalicabile.
Io partirei da qui, per immaginare cosa pensare, prima di fare: non esiste più una sinistra, una famiglia di sinistra. Da una parte essa ha abbracciato il liberismo, pur in una ragionevole fuga dallo Stato, e il mercatismo; dall’altra, nei suoi aspetti minoritari che pure tanta influenza e importanza hanno avuto, si muove nel solco dell’anti-globalismo – nell’attesa dell’apocalisse o nel vagheggiamento di una “natura benigna”. Forse, l’ultima grande occasione che abbiamo avuto di avere una sinistra moderna e capace (anche della “forza”) è stato il movimento nato a Seattle e poi “chiusosi” con Genova 2001, del tutto impropriamente denominato no-global. E dispersosi poi in mille rivoli, in mille “cristalli”.
Qua stiamo. Non optime, direi.
Ottobre 2022.