sul nazionalismo.

Tutte le guerre di liberazione nazionale del Novecento sono state nazionaliste. Erano guerre nazionali contro la colonizzazione, e quindi contro gli imperi dell’Ottocento, quello francese, quello belga, quello inglese. Poi, anche contro quello “nuovo”, nato dalla Seconda guerra mondiale, quello americano. I vietnamiti sconfissero due imperi, uno dietro l’altro, quello francese e quello americano, senza soluzione di continuità. Ma i vietcong erano nazionalisti, proprio come gli algerini del Fronte di liberazione nazionale. Eravamo noi gli internazionalisti, noi che urlavamo “dieci, cento, mille Vietnam”. Noi, noi europei e occidentali, non avevamo una nazione da liberare da un impero – noi eravamo l’impero.
Come in tutte le cose, c’è un punto di inizio – e il punto di inizio era stata la rivoluzione haitiana contro la schiavitù del 1791 (e bisognava risalire a Spartaco, per trovarne una simile) e la proclamazione di Haiti come Stato indipendente.
Dentro queste guerre di liberazione dalla colonizzazione imperiale europea e occidentale – c’erano importanti fenomeni di “internazionalità”, ovvero di costruzione di “aree geo-politiche”, penso al bolivarismo sud-americano, al panarabismo, dopo la crisi del canale di Suez, penso al panafricanesimo. Aree “continentali” che puntavano a un risveglio di enormi potenzialità umane e materiali che erano state sfruttate e schiavizzate e che potevano risorgere e crescere solo in un processo di “messa in comune” di valori e intenzioni. Naturalmente, in questo processo di “messa in comune” di valori e intenzioni democratiche e progressiste c’era anche la consapevolezza non solo che sarebbe stato oltremodo difficile una autarchia economica ma anche che bisognava evitare i pericoli di un esasperato nazionalismo.
Tutti questi processi di liberazione nazionale, come i processi di internazionalità di aree continentali trovarono “naturale” guardare e appoggiarsi all’Unione sovietica. La parabola rapida di Cuba è esemplare: la rivoluzione cubana non nasce “a sinistra”, ma nazionale, semmai democratica, anti-tirannica e, appunto, bolivarista, e finisce con l’abbracciare l’Unione sovietica per la propria sopravvivenza – e economica, per lo sbocco di mercato della sua monocoltura della canna da zucchero, e politica e militare per i ripetuti tentativi americani di spazzarla via.
Ma l’Unione sovietica non era solo un “altro polo” mondiale che poteva bilanciare con la sua potenza l’aggressività americana e il suo auto-investito incarico di gendarme del mondo – era anche un polo ideologico, un messaggio universale di liberazione. Quello che nel “mondo multipolare” di cui oggi si propugna l’avvento non ci starebbe comunque.
Come in tutte le cose, c’è un punto di fine – e il punto di fine è stato la caduta del muro di Berlino e lo scioglimento dell’Urss del ’91. Come per il punto di inizio, che è il coagulo di lunghi processi storici, il dipanarsi di uno gnommero, anche il punto di fine è solo la conclamazione di lunghi processi: il socialismo era già finito da mo’. L’Unione sovietica era già diventata solo una potenza geo-politica e un impero, acciaccato, perché non aveva più un “collante ideologico” e una “spinta propulsiva” in grado di competere, quindi feroce come ogni impero.
Lo scioglimento dell’Unione sovietica, quello che Putin definisce “la più grande tragedia del Novecento”, cioè la fine del “polo ideologico”, lasciò per un verso “in potenza” la tentazione storica imperiale della Russia e innescò, dall’altro verso, i nazionalismi di tutti i paesi che erano stati “colonie” di quell’impero. Tutti i processi politici e istituzionali che seguirono la costituzione in “nazioni indipendenti” delle ex-colonie sovietiche non potevano che essere anti-russi, esattamente come tutti i processi di liberazione dagli imperi europei e americano erano stati “anti-occidentali”.
Paradossalmente, l’unico messaggio “universale” (“internazionalista” o, quanto meno, anti-nazionalista) che ha attraversato la fine del Novecento e continua ancora è quello religioso e teocratico del fondamentalismo islamico, che è passato – anche qui c’è un punto di inizio – dalla rivoluzione dei mullah iraniani del 1979 fino all’Isis e al Daesh, passando per Hezbollah, Hamas e al Qaeda. E non c’è ancora un punto di fine.
Il mio amico Maurizio Lazzarato, ripercorrendo Giovanni Arrighi, sostiene che questi processi di “sganciamento” di nazioni dalla colonizzazione imperiale sia il “vero” fenomeno del Novecento sul piano della distribuzione del potere e anche della ricchezza mondiale, molto più della lotta di classe tra salario e capitale che ha attraversato l’occidente. Ritornerò su questa cosa che detta così sembra avere un “contenuto progressivo” – perché a me sembra evidente che esiste una differenza enorme tra il “potere” della rendita di emiri arabi e oligarchi russi della ricchezza parassitaria del petrolio e del gas e quello “produttivo” della Cina. Il punto nodale ora non è questo, ma che tutti i processi di sganciamento dagli imperi hanno ripercorso – o intendono percorrere – la strada dello Stato nazionalista.
Ci troviamo quindi di fronte imperi in declino che avendo perso un carattere di collante, voluto o forzato, di altre nazionalità, altre culture, altre produzioni, si “attestano” su una “etnia” (lo dico in senso politico), come è per il trumpismo con la “etnia wasp”, bianca e protestante, e come è per il putinismo, con il “russismo slavo”. Il che peraltro significa che “dentro” questi imperi si aprono le guerre civili.
In un certo senso, la guerra in Ucraina è una guerra civile, fratricida, etnica e nazionalista, da una parte e dall’altra. E non ci sono guardie bianche e guardie rosse.
In questo tipo di conflitti, schierarsi perciò non può avere un carattere “etico” o umanitario ma un carattere squisitamente politico. E qual è il carattere politico? Quello che può accadere e quello che, invece, vorremmo che accadesse. Quello che può accadere nel conflitto ucraino è ovviamente diverso se ne escono perdenti i russi o i gli ucraini. Gli ucraini non mirano a “occupare” la Russia, mentre è vero il contrario. La vittoria ucraina non comporta il disfacimento della Russia, mentre è vero il contrario. La vittoria ucraina potrebbe portarla dentro un percorso di democratizzazione europea, mentre la vittoria russa non potrebbe che accelerare la sua “volontà di riscatto e di potenza imperiale”. Queste sono le opzioni politiche in campo. “La pace” non rientra tra le opzioni politiche.
Che gli ucraini entrino nell’area di mercato europeo non ne aumenterà certo il suo tasso di democraticità – e non solo per “colpa” del nazionalismo ucraino che, peraltro, si troverebbe in buona compagnia, con quello polacco, ungherese, baltico. Per non dire dei “più grossi”. Ma perché l’Europa continua a essere solo un’area di mercato e di moneta e non un “soggetto politico” mondiale.
Con una enorme opportunità storica però – opporre agli imperi (russo, americano, cinese) e ai nazionalismi (sfrenati, in giro per il mondo, nonché al suo interno) un radicale cambiamento nella geo-politica.
Perché questo possa accadere ci vorrebbe un soggetto politico europeo che, francamente, al momento non ci pare di poter individuare, se non disperso.

Nicotera, 10 marzo 2022.

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