Parliamo di Draghi.

Mi viene rimproverato, talvolta, di avere una eccessiva “condiscendenza”, diciamo così, nei confronti di Draghi. Di accodarmi, insomma, all’enfasi generalizzata del mainstream e di non cogliere i pericoli immediati e futuri della sua ingombrante presenza alla presidenza del consiglio. So, dentro di me, quanto questo sia falso, ma proverò invece a spiegare perché questo sia in parte vero.
Questo paese vive un lento e inesorabile declino da decenni. Eppure, ci fu un tempo non lontano in cui potevamo fregiarci di essere “la settima potenza del mondo”. Eravamo “la seconda meccanica d’Europa”, dietro la Germania, avevamo un’industria automobilistica capace di competere sui mercati e di conquistarne quote, facevamo l’acciaio migliore del mondo e le navi più belle del mondo. Avevamo un ruolo non proprio secondario nella geopolitica mondiale e europea – eravamo anche tra i paesi fondatori dell’Unione – e “il partito comunista più forte dell’occidente” stava qui. Cosa, questa, che non è ellittica rispetto quanto detto prima, per la natura particolare che rappresentava. Insomma, un vero e proprio “laboratorio politico”, in cui ebbe un ruolo non secondario un’onda lunga un decennio – dal ’68 al ’77, come non accadde da nessun’altra parte – di movimenti politici, radicati nella società.
Le cause di questo declino – che è economico ma anche del proprio ruolo geo-politico – sono molteplici, e darne conto anche solo per cenni qui è improbo. Si può però dire degli effetti di questo declino, che sono più tangibili e immediatamente evidenti: una crescita che sta intorno allo zero da un gran bel pezzo, una disoccupazione spaventosa, un mercato del lavoro senza regole e dominato dalla precarietà, una forbice di diseguaglianza che si allarga, la difficoltà a creare nuovo risparmio, la perdita di status, l’abbandono di intere aree e regioni del paese eccetera – sono cose che sappiamo elencare e in cui riconoscerci di primo acchito. Affiancati da fenomeni demografici importanti – un saldo tra nascite e invecchiamento che fa impressione, considerando che, appunto non molti decenni fa, eravamo considerati iconicamente un paese “a alta riproduzione” e giovane.
Forse un po’ troppo sbrigativamente, ma potremmo dire che il “sentimento nazionale” è quello della perdita e della depressione – ironicamente per un paese anziano, si attaglia uno slogan punk: no future. Questa assenza di sguardo sull’orizzonte ha risvolti politici decisivi. La improvvisa scomparsa, con Tangentopoli, di due “pilastri” politici dello Stato – ovvero, la Democrazia cristiana e il Partito socialista – che avevano segnato dal dopoguerra tutta la sua gestione e che non ha eguali in nessun’altra parte del mondo, ha creato un vuoto enorme. In alto e in basso. La comparsa, in rapida successione, di tre “fenomeni” come Forza Italia e la Lega prima e il Movimento 5stelle dopo – che hanno avuto e hanno un ruolo non riscontrabile altrove, dove pure sono nati “nuovi partiti” – ha una evidente relazione con la dipartita di Dc e Psi. E benché abbiano governato – Forza Italia con la Lega, la Lega con il Movimento 5stelle – nessuna politica è riuscita a far risalire a questo paese il piano inclinato in cui si trova. Siamo diventati più o meno “gli ultimi della classe” e l’Europa ci fornisce ogni tanto un “insegnante di sostegno” – anche se, per quel che pare, le nostre capacità di apprendimento rimangono relative.
Il sentimento nazionale ha così agglomerato altri caratteri alla depressione: frustrazione, rabbia, un egoismo quasi necessitato, per sopravvivere. Ne fa fede una progressiva disaffezione alla partecipazione politica: nonostante sia un fenomeno non solo nostro, l’astensionismo elettorale è diventato spaventoso – soprattutto se lo si confronta con le cifre altissime, tra le più alte, che invece caratterizzavano le votazioni del tempo che fu.
Il declino, economico e politico, non è certo una “prerogativa” italiana. Si parva licet componere magnis – il “fenomeno Trump” si può leggere anche così: Make America great again, era una “risposta” a modo suo al sentimento sociale di depressione, di avere perduto il proprio ruolo nel mondo. Un ruolo che evidentemente non era sentito solo in alto, ma anche in basso. Non è casuale perciò che i più fervidi sostenitori del trumpismo si trovassero tra i “white men” degli Stati più rugginosi – operai, middle class. Un’operazione – questa, di “rilanciare” il sentimento nazionale – che era riuscita benissimo alla Thatcher che alla evidente de-industrializzazione del paese (e consapevolezza che l’impero fosse finito da mo’) rispose con il Rule Britannia! e la guerra delle Falklands, compattando, più in basso che in alto per la verità, il paese in una ri-scoperta di sciovinismo (una eco che dura tutt’ora, perché io non riesco a leggere altrimenti la Brexit). Perché il “pericolo politico” della depressione e della frustrazione sociali sta proprio in questo: il nazionalismo e lo sciovinismo nazionalista. Una operazione che, per mille cause ora non affrontabili qui, riesce meglio alle destre (il riferimento-principe è, ovviamente, all’avvento del fascismo e del nazional-socialismo – benché qui, non sarebbe neppure necessario dirlo, non si vuole agitarne lo spettro).
La Lega di Salvini ha provato a fare questo passaggio, da territoriale (la secessione, Roma ladrona) a nazionale – cavalcando due temi di “costruzione della nemicità”, che è basilare per la “narrazione” che ci fa scoprire la propria identità: l’Europa e i migranti. Non è che cambino le condizioni materiali – sempre disoccupati si resta, sempre precari si vive – ma si “incanalano” le frustrazioni: d’altronde, non è che dopo la guerra delle Falklands i tassi di disoccupazione scendessero in Gran Bretagna, ma la “Iron Lady” era diventata intoccabile, la “guida suprema”, come l’ayatollah Khomeyni.
Che l’operazione sia riuscita o meno a Salvini e alle destre non è che qui conta assai – quello che è accaduto è che molte “velenosità discorsive”, molti lemmi dannati siano entrati a far parte della chiacchiera pubblica, quella da bar, quella da ufficio, quella alla macchina del caffè, quella da social. Il covid ha fatto il resto, mettendoci il carico da undici: i “nemici” della nostra rabbia e della nostra frustrazione ora sono tanti: i medici, gli scienziati, i virologi, i giornalisti, i potenti, i partiti. Tutti insieme, ai nostri danni.
Questo è lo “stato dell’arte” del sentimento nazionale. Trovo scandaloso che non si capisca quanto questo sentimento sia attecchito “dentro” il popolo, la classe, o quel che l’è.
A questo punto arriva Draghi. Che “impersona”, in carne e ossa, una possibilità di autorevolezza per questo paese: è un uomo del “giro dei potenti”, ma è italiano; viene dalla Banca europea, ma è italiano; stava con la grande finanza, ma è italiano. Lo ascoltano, è rispettato. Non ci sono più i risolini di Merkel e Sarkozy quando parlavano di Berlusconi; non c’è più la sufficienza con cui veniva trattato Conte, tanto si sa che domani cambierà; non c’è più l’ostilità verso la Lega, che ci fa sembrare un paese di sciroccati.
Draghi è un argine al nazionalismo, allo sciovinismo nazionalista. Alla depressione, alla frustrazione. Draghi dà l’impressione (l’illusione – che è un agente potente) che si possa tornare “great again”. Quanto più cresce il suo consenso, tanto più in alcune frange sociali e politiche aumenta la rabbia – non propriamente spontanea, a mio parere – nei suoi confronti.
Questa è la contraddizione principale – da una parte Draghi, dall’altra il nazionalismo sciovinista. Il suo liberismo, la crescita del debito pubblico, la gestione del PNRR e via dicendo, sono al momento: il resto. Non che debba essere “condonato”, sospeso o amnistiato – anzi. E bene è, che vengano iniziative e lotte, magari un po’ più “centrate” rispetto sta cretineria del Green Pass, perché intanto la depressione avanza, e le sue conseguenze sociali.
Draghi è un uomo delle élite liberiste, non del popolo. Che però – la storia potrebbe aiutarci in questo – non è che le élite liberiste amino sempre il nazionalismo sciovinista. Per i propri interessi, mica per amore della democrazia. A mezzo di Draghi, se così si può dire, una certa liberalità democratica, una certa sinistra liberale e liberista, sta riprendendo un po’ di fiato – era incapace di farlo da sola: forse, l’ultima tornata delle amministrative si può leggere anche così. E Draghi non è Monti, che era stato messo lì a fare il “lavoro sporco” e che finì a comparire in televisione con il cagnolino, per raccattare un po’ di voti al suo partito. Draghi ce li ha già, i partiti. Ma se non si coglie a fondo questa sua “autonomia”, non si capisce molto.
La scommessa di Draghi è sulla “rinascita” di un sentimento nazionale positivo. Dentro un quadro europeo – che pur esso è attraversato da lacerazioni, e basta pensare a Ungheria e Polonia. Che ci riesca o meno è un altro discorso. Ma se non ci riesce – non è che il clima tenderà necessariamente al bello, anzi. Che in questo sentimento positivo ci stia quello straordinario laboratorio politico fatto da movimenti e associazioni – beh, non è certo il suo obiettivo. E neppure il suo mestiere.

Nicotera, 3 ottobre 2021.

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