«Figli dell’officina / O figli della terra / Già l’ora s’avvicina / Della più giusta guerra. / La guerra proletaria / Guerra senza frontiere / Innalzeremo al vento / Bandiere rosse e nere».
Quando in aula – è l’8 luglio 1968 – viene letta la sentenza della Corte di Assise di Milano, dopo un processo iniziato il 3 giugno e protrattosi per ventuno udienze, che li condanna all’ergastolo, Cavallero, Rovoletto e Notarnicola intonano la canzone proletaria e alzano i pugni. D’altronde, figli dell’officina lo erano davvero, prima di darsi alle rapine: Pietro Cavallero, detto il Piero, torinese, veniva dal quartiere della Barriera di Milano, era figlio di un falegname e era stato un militante comunista; Adriano Rovoletto, di origini venete, era stato partigiano, era figlio di un operaio, e apprendista falegname; Sante Notarnicola, di origini pugliesi (veniva da Castellaneta, Taranto), diploma di quinta elementare, ex segretario della FGCI di Biella, ex venditore ambulante di fiori, ex facchino. E poi c’era Donato Lopez, di diciassette anni, uno dei sei figli di un operaio emigrato dal sud a Torino, disoccupato, che fu condannato, proprio per la giovane età, a dodici anni.
Cavallero e Rovoletto sono morti, entrambi di cancro, l’uno nel 1997, l’altro nel 2015. Ieri l’altro è morto Sante Notarnicola, che dal carcere era uscito nel 2000, stabilendosi a Bologna dove ha gestito per anni il pub Mutenye nel centro città. I figli dell’officina non ci sono più.
Si erano messi assieme a Torino in una piòla di Corso Vercelli, all’estrema Barriera di Milano, che era il quartiere dove erano cresciuti tutti e dove si ritrovavano spesso disoccupati, senza un lavoro fisso, operai che passavano il tempo a discutere di politica, di rivendicazioni sociali, giocando a scopone o a tressette, con un buon bicchiere di vino, magari sognando la rivoluzione. Bruciava un’ansia di giustizia sociale – ma bisognava andare per le spicce. È così che nasce la banda. Li accusarono di 23 rapine, 5 sequestri di persona, 21 tentati omicidi e 5 omicidi. La prima rapina era stata all’istituto Bancario San Paolo a Torino, l’8 aprile 1963; l’ultima, al Banco di Napoli a Milano, il 25 settembre 1967. Quattro anni e mezzo in cui misero in scacco le polizie delle due capitali del boom economico. C’era anche questo aspetto della sfida, che li spinse fino a effettuare una tripletta, tre rapine di fila, come a irridere la polizia che, nei fatti, non era preparata.
«Tu chi sei?», chiese il carabiniere, puntando il mitra. E quello: «Sante Notarnicola, bandito». Li avevano circondati, Cavallero e Notarnicola, all’alba del 3 ottobre 1967, in una caccia all’uomo che aveva mobilitato cinquecento carabinieri e poliziotti, dentro un casello ferroviario abbandonato di Valenza Po, nell’Alessandrino: l’informazione era arrivata da un commerciante della zona che li aveva riconosciuti quando erano andati a acquistare delle provviste nel suo negozio. Era una fuga disperata – forse sapevano che chiunque li avrebbe venduti, troppa la pressione per catturarli, le loro foto segnaletiche erano sulle prime pagine di tutti i giornali – soprattutto considerando che non avevano una “cassa” per la latitanza: i soldi delle rapine li avevano spesi tutti. Era durata una settimana la loro fuga.
Alle 15.20, Cavallero, Notarnicola e Rovoletto entrarono in banca con le pistole spianate. Lopez li attendeva in auto con il motore acceso. L’azione fu veloce e il bottino cospicuo: dodici milioni di lire. Che allora erano proprio soldi. Un impiegato però riuscì a dare l’allarme e, da quel momento, si scatenò il finimondo.
Una volante della polizia, a cui subito se ne aggiunsero altre, intercettò la Fiat 1100 nera dei rapinatori e iniziò l’inseguimento. Per seminare la polizia, Cavallero e gli altri cominciarono a sparare ad altezza d’uomo. In mezz’ora appena, vennero colpite a morte tre persone: in viale Pisa l’autista di una cartiera sul suo furgoncino; in piazza Stuparich un automobilista, e in piazzale Lotto uno studente liceale di 17 anni. Ci fu poi una quarta vittima, che morì d’infarto qualche ora dopo essersi scontrato con uno dei rapinatori (Rovoletto, subito catturato) in fuga a piedi con il bottino sottobraccio. Dodici chilometri era durata quella fuga in auto, che era terminata con uno schianto contro un muro. Lopez fu catturato il giorno dopo, a Torino. Il bilancio di quel giorno fu tragico: quattro morti e una ventina di feriti tra civili e agenti. Tutta la storia ebbe un clamore enorme, e Carlo Lizzani “a caldo” ci fece un film, Banditi a Milano, con Gian Maria Volontè, Don Backy, Tomas Milian.
Poi, in carcere, i percorsi si divisero. Cavallero si tirò fuori da tutto, scoprì la pittura e, più tardi, il cattolicesimo. Notarnicola, invece, fece parte di quella generazione di detenuti che nei primi anni Settanta “intercettarono” i militanti politici, in particolare quelli di Lotta Continua: è proprio dallo scioglimento del “fronte carceri” di LC che dopo il 1973 nasceranno i NAP. Sante diventa un’icona del movimento carcerario e della sinistra antagonista di quegli anni. Nel 1972 Feltrinelli gli pubblica il suo primo libro, L’evasione impossibile, a cui seguiranno altri. Nel 1978, il suo nome è il primo nella lista di tredici detenuti che le Brigate rosse intendono “scambiare” con Moro.
Ho rivisto Sante a Bologna due anni fa circa – mentre andavo “in tour” a presentare il mio librino sull’indipendentismo. La presentazione era in un’aula dell’università e Sante arrivò, qualche minuto prima, con un giovane compagno. Lucido ma affaticato – sarebbe andato via subito, mi disse. Ci sedemmo su una panca e scambiammo un po’ di saluti e di chiacchiere – non ricordo davvero di cosa parlammo. Non era importante. L’ultima volta che avevo visto Sante – quarant’anni prima – era nella sua cella, forse a Badu ‘e Carros o forse a Palmi. Parlammo, con Sante, in quella cella – avevo rispetto ma anche le mie idee e molte cose non mi garbavano in quei “comitati di lotta prigionieri” egemonizzati dalle Br: però, anche di questo ho un ricordo vago. Poi, le cose andarono come andarono. Ritrovarlo lì, su una panca, dopo quarant’anni – mi sembrò, da parte sua, un segno di affetto verso di me. E per tanti, tanti versi – lo considerai una cosa preziosa.
Nicotera, 23 marzo 2021.
pubblicato su “il dubbio”, quotidiano del 24 marzo 2021.
Mi dispiace che sia morto, ma non saremmo andati d’accordo. Sono anarchico nonviolento.
Mi dispiace che sia morto, ma non sopporto l’uso della violenza.