Elezioni americane: fino all’ultima scheda.

Quando Ulysses Grant disse che lui non si sarebbe ricandidato per un terzo mandato – allora si poteva – il Partito repubblicano andò nel pallone. Già non era facile trovare qualcuno che potesse reggere il confronto, ma il partito era in crisi, e alle elezioni di metà mandato i democratici avevano preso una valanga di voti. E i democratici avevano preso una valanga di voti perché i repubblicani, che avevano vinto la guerra civile, avevano liberato i neri dalla schiavitù, avevano mandato l’esercito al sud per avviare la Ricostruzione e consentire ai neri di votare, andare a scuola, avere un’impresa, in quegli anni in cui Grant era stato presidente erano stati travolti da uno scandalo dietro l’altro. La corruzione se lo stava mangiando, al partito repubblicano e forse Grant aveva fiutato l’aria e non gli andava di finire la sua straordinaria vita vittoriosa da sconfitto. Così, mentre i democratici scelsero il loro campione in Samuel Tilden, un democratico che governava lo Stato di New York, i repubblicani scelsero Rutherford Hayes, che era governatore dell’Ohio, era stato avvocato – spesso difendendo i neri che si erano liberati, dalle pretese dei loro ex padroni bianchi – e si era conquistato i gradi di generale sui campi della guerra civile. Un buon candidato, ma anche un uomo stanco.
Insomma, Tilden cavalca l’onda del voto contro la corruzione “federale” e prende quattro milioni e 300mila voti e 184 grandi elettori – ne servivano 185 allora per la maggioranza, perché erano 369 in tutto. Ne mancava uno, solo uno. E invece Hayes prende solo quattro milioni di voti e si ferma a 165. Il fatto è che non erano stati assegnati i voti di Florida, Louisiana e South Carolina. E non erano stati assegnati perché le notizie sui brogli e le intimidazioni e le violenze da parte dei democratici razzisti del sud perché i neri non votassero erano diventate talmente tante da rendere impossibile considerare quel voto valido. Uno stallo. Lo scenario peggiore.
Si formò una commissione straordinaria, poi se ne fece un’altra, ma la situazione non si schiodava. Poi si arrivò a un compromesso – era già marzo del 1877 e non si poteva andare avanti in quel modo – che si chiamò proprio così The Compromise anche se non c’è un vero e proprio testo: in cambio del fatto che i dem riconoscevano la vittoria di Hayes a cui vennero assegnati i venti voti in ballo, i rep si impegnavano a ritirare l’esercito da sud e a chiudere l’era della Ricostruzione. I neri furono ricacciati indietro e iniziò quella segregazione razziale a cui poi solo le leggi di Lyndon Johnson – e i grandi movimenti per i diritti civili – posero fine. L’elezione del 1876, che detiene il record della partecipazione popolare: l’81,8 percento, cifra mai più raggiunta, è ricordata per essere l’elezione di più stretta misura: Rutherford 185-Tilden: 184.
Fu anche una delle cinque elezioni presidenziali in cui chi prese più voti non divenne Commander in Chief. Quelle più vicine che ricordiamo sono quelle di Trump-Clinton del 2016 – con uno scarto di tre milioni di voti a favore della candidata dem che però non vinse ma non ci fu alcuna contestazione – e quelle di Bush-Gore del 2000. Che si ricordano per un altro “incubo politico” simile a quello del 1876: il rush finale dei due candidati, per una manciata di voti in Florida i cui Grandi elettori risultavano determinanti per l’elezione dell’uno o dell’altro candidato, che fu poi risolto dalla Corte Suprema. L’8 novembre – si era votato il giorno prima – il rapporto della divisione elettorale in Florida affermava che Bush aveva un margine di vittoria di 1784 voti e secondo lo statuto della Florida una tale situazione richiedeva un automatico riconteggio manuale dei voti. Lo scarto tra Bush e Gore si ridusse a 357 voti. Gore chiese allora il riconteggio per altre quattro Contee – ma tutto doveva essere compiuto entro sette giorni dal voto, impossibile. Gore e Bush portarono il caso davanti la Corte suprema l’11 dicembre – che ordinò la sospensione della conta dei voti: Gore aveva preso 50 milioni 999.897 di voti e il 48,4 percento; Bush aveva preso 50 milioni 456.002 di voti e il 47,9 percento, ma Bush era presidente degli Stati uniti d’America per 357 voti della Florida.
Queste due situazioni-limite erano state evocate ripetutamente da esperti di sondaggi e da opinionisti per mesi prima del voto, un po’ per esorcizzarle e un po’ perché il clamoroso errore generale compiuto nella elezione del 2016, quando Clinton era data per sicura vincente, ha, diciamo così, invitato a una estrema cautela. E soprattutto, si è capito che anche se puoi avere una valanga di voti più del tuo avversario, forse non sono sufficienti per raggranellare la maggioranza dei Grandi elettori. Così abbiamo imparato tutti che esistono gli “swing States” che stanno in bilico per un candidato o l’altro per poche decine di migliaia di voti, una contea, spesso anche meno, e che questi swing States stanno per lo più concentrati nella rust belt, la cintura arrugginita del Midwest dove c’era il cuore siderurgico e meccanico dell’America, che si è progressivamente deindustrializzato. Per dire: Clinton prese sì tanti voti più di Trump ma ne prese meno di Obama – che riuscì a galvanizzare il voto giovane e quello nero. Eppure, Biden ha preso più voti di Obama – l’ex-vicepresidente ha avuto 69 milioni e 512.303 voti con lo spoglio da completare e Obama nel 2008 era stato eletto presidente degli Stati Uniti con 69 milioni e 498.516 voti – ma ancora siamo qui.
E siamo ancora qui perché – i numeri lo dicono – Biden è riuscito a smuovere l’onda blu, the blue wave, del voto democratico, ma anche Trump è riuscito a mobilitare la base del Partito repubblicano, come non mai. Il 67 percento di votanti – con una quantità mai vista di voto anticipato o per mail – è l’affluenza più alta da un secolo. Da un secolo. In genere non superava il 50 percento.
Nessuno può ragionevolmente dire con certezza che nel voto per posta ancora da scrutinare ci sia la vittoria di Biden – sono stati cento milioni i voti prima dell’election day. Però sappiamo con assoluta certezza che Trump è da mesi che fa campagna contro il voto per posta – prima provando a impedirlo in tutti i modi e poi a delegittimarlo. E sappiamo che almeno la metà dei voti prima dell’election day sono concentrati proprio nei luoghi di scontro più ravvicinato tra Trump e Biden. È una frode, dice ora Trump, vogliono rubarci la vittoria. Dobbiamo aspettare fino a che l’ultimo voto non verrà scrutinato, dice Biden, perché non lo decido io o Trump chi sarà il prossimo presidente degli Stati uniti, ma il voto degli americani.
E forse bisognerà aspettare.

Nicotera, 4 novembre 2020.
pubblicato su “il dubbio”, quotidiano del 5 novembre 2020.

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