Rashida Tlaib, 1976, è la più grande di quattordici fratelli nati a Detroit da due immigrati palestinesi, entrambi provenienti dai dintorni di Ramallah – il padre faceva l’operaio alla Ford. Si è diplomata e poi laureata in Scienze politiche e successivamente in Legge. Nel 2004 inizia la sua carriera politica, a fianco di un rappresentante democratico e nel 2008 corre per la prima volta nel 12th distretto, area sud-ovest di Detroit, in preponderanza democratico (qui Trump ha raccolto solo il 30 percento di voti ma poi vinse il Michigan, che fu determinante, per soli diecimila voti), dove vive il 40 percento di ispanici, il 25 percento di afro-americani, il 30 percento di bianchi, e il 2 percento di arabi-americani. Vinse alla grande e fu rieletta nel 2012, anche se in un altro distretto, il 6th. Adesso si prepara per correre per un posto al Senato alle elezioni di mid-term del 6 novembre nel 13th dei quattordici distretti del Michigan. Ha vinto le sue primarie democratiche, non ha concorrenti, e quindi sarà eletta, diventando così la prima donna musulmana e la prima palestino-americana al Congresso.
Rashida Tlaib è socialista. Una parola che in America è stata ultimamente sdoganata da Bernie Sanders, indipendente nel partito democratico, che nel 2016 ha conteso fino all’ultimo e inaspettatamente la candidatura alle presidenziali a Hillary Clinton, suscitando entusiasmo e partecipazione in una nuova generazione di militanti. Sanders e Tlaib sono membri del Dsa, Democratic Socialists of America, nato negli anni ottanta, ma i socialisti americani hanno una lunga storia. Il Partito socialista americano fu fondato agli inizi del Novecento, tra gli altri, da Eugene Debs, che fu anche fondatore degli Iww, gli Industrial workers of the world, un pugno di uomini e donne dalla storia straordinaria, quando minatori, ferrovieri e siderurgici “costruivano” l’America.
Mother Jones, ovvero Mary Harris Jones, irlandese, inesauribile agitatrice sindacale, definita la «donna più pericolosa d’America» ma anche I’«angelo dei minatori», a seconda di chi ne parlasse: Mother Jones interveniva a organizzare tutti gli scioperi, come quello dei ferrovieri nel 1877 a Pittsburgh; Lucy Eldine Gonzales Parsons, africana, già militante nell’organizzazione per i diritti razziali poi attivista anarchica a fianco dei martiri di Haymarkets a Chicago nel 1886; William «Big Bill» Haywood, fisico imponente, di temperamento sanguigno, più incline alla lotta che alla negoziazione, che fu incriminato e condannato nel 1907 con l’accusa di aver organizzato l’assassinio del governatore Steunenberg, la cui casa era stata fatta esplodere con le bombe usate dai minatori nelle miniere d’argento dell’Idaho; Elizabeth Gurley Flynn, definita «la Giovanna d’Arco dell’est», che durante il suo attivismo sindacale fu arrestata dieci volte e mai condannata, poi sostenne la campagna a favore di Sacco e Vanzetti e quella a favore del suffragio femminile. Insomma, tipi tosti.
Rashida Tlaib non è così radicale. Il suo programma comprende: il Medicare, cioè l’assistenza sanitaria, estesa a tutti, una battaglia che Obama provò a intestarsi ma realizzò solo parzialmente per l’opposizione feroce dei repubblicani; la possibilità di accesso libero e gratuito agli studi (oggi i prestiti d’onore strozzano gli universitari per decenni); la possibilità di possedere una casa; l’impegno per il recupero di aree devastate dall’inquinamento. Però, a pensarci nell’America trumpiana un programma così suona davvero radicale.
Intanto, l’opinione pubblica è tutta concentrata sulla “questione Kavanaugh”, il giudice conservatore che Trump vuole a tutti i costi alla Corte suprema, sbilanciando così l’equilibrio attuale, e che è stato pubblicamente accusato dalla professoressa Christine Ford di tentato stupro durante gli anni delle scuole superiori. Trump ha assistito all’audizione della Ford davanti alla Commissione giustizia del Senato. Il giorno dopo, in conferenza-stampa ha detto che trovava la sua testimonianza «davvero convincente, per me è proprio una donna in gamba». Ma subito dopo ha aggiunto: «E penso che la testimonianza di Brett [Kavanaugh] sia stata allo stesso modo straordinaria, una cosa che non avevo mai visto. Un momento fondamentale nella storia del nostro paese. Però, lei è davvero una testimone credibile, è proprio in gamba». Insomma, Trump è riuscito nella stessa frase a dire una cosa e il suo contrario, che l’assalto sessuale ci sia stato e pure no.
Poi, pochi giorni fa, durante un comizio in Mississippi si è prodotto in un’imitazione in caricatura della testimonianza della Ford, senza nominarla. Grandi risate, applausi. Naturalmente, al contrario della caricatura di Trump, la Ford ha descritto minuziosamente la pianta della casa dove accadde l’episodio di tentato stupro e precisamente il periodo in cui è accaduto – oltre a aver chiamato in causa un testimone presente. Ecco la sua testimonianza: «All’inizio della serata, salii su una stretta scala che portava dal soggiorno a un secondo piano per usare il bagno. Ero appena arrivata in cima alle scale, quando sono stata spinta da dietro in una camera da letto. Non ho visto chi mi spingesse. Brett e Mark entrarono nella camera da letto e chiusero la porta dietro di loro. C’era già musica in camera da letto, ma entrambi alzarono il volume al massimo. Mi spinsero sul letto e Brett mi salì addosso. Cominciò a passare le mani sul mio corpo e mi stringeva i fianchi. Gridai, sperando che qualcuno al piano di sotto potesse sentirmi, e cercai di allontanarmi da lui, ma era troppo pesante. Brett mi palpeggiava dappertutto e ha cercato di togliermi i vestiti».
Ma per Trump tutto si gioca su «una birra», per minarne ogni credibilità. Dopo l’audizione, e dopo la minaccia di non votare se non si fosse rimandato e avviate indagini da parte di un senatore repubblicano, Jeff Flake – c’è un solo voto di differenza in Commissione e quindi è determinante – Trump ha disposto indagini dell’Fbi sull’episodio denunciato dalla Ford, ma ponendo paletti rigidissimi e dando tempo solo una settimana: per oggi, venerdì, ogni indagine dovrà essere conclusa.
In un op-ed sul «New York Times», James Comey, che era il capo dell’Fbi prima che Trump lo facesse fuori perché non era perfettamente allineato, ha scritto che l’agenzia in una settimana, nonostante i vincoli imposti, potrebbe fare un buon lavoro di indagine. Ma ha scritto anche: «Viviamo in un mondo in cui il presidente attacca abitualmente l’Fbi perché teme il suo lavoro. Chiede che i suoi nemici vengano processati e che i suoi amici siano liberati. Viviamo anche in un mondo in cui un giudice federale si accoda al presidente urlando attacchi alla commissione del Senato, che sta prendendo in considerazione la sua nomina e chiedendo se un senatore rispettato abbia mai smesso davvero di bere. Viviamo in un mondo in cui il presidente è accusato di avere abusato compulsivamente di donne, e che è stato registrato nel vantarsi della sua capacità di aggredire le donne e ora paragona le accuse contro il suo candidato alle numerose accuse “false” contro di lui. Ma la cosa più inquietante è che viviamo in un mondo in cui milioni di repubblicani e i loro rappresentanti pensano che quasi tutto nel paragrafo precedente sia okay».
Intanto, nel suo intervento all’Assemblea dell’Onu, una settimana fa, Trump ha attaccato la Cina, l’Iran, il Venezuela e il Canada, ma ha rivendicato gli accordi con la Corea del Nord. Ha pure trovato il tempo per rivendicare i suoi successi: «In meno di due anni, la mia amministrazione ha ottenuto più di ogni altra amministrazione nella storia». Ci sono state risate nella platea, ma Trump ha reagito così: «Didn’t expect that reaction, but that’s okay», e ha continuato, parlando dei successi della Borsa e dei numeri positivi dell’occupazione, anche nella manifattura.
Vedremo che succede al voto in Commissione giustizia del Senato, che inizierà i lavori visionando le indagini dell’Fbi. Intanto, in una lettera aperta sul «New York Times», oltre 650 professori di Legge esortano il Senato Usa a non confermare la nomina del giudice Brett Kavanaugh alla Corte Suprema, «la più alta Corte di questa Terra».
Nicotera, 4 ottobre 2018.
pubblicato su “il dubbio”, quotidiano del 5 ottobre 2018.