Pervenne la mortifera pestilenza.

«Pervenne la mortifera pestilenza, la quale per operazione dei corpi celesti o per le nostre inique opere, nelle parti orientali cominciata, verso l’occidente miserabilmente era ampliata».
È Boccaccio, nell’introduzione al Decamerone. Fu una successione micidiale di eventi: prima una grande carestia – che mise in ginocchio le forme e i modi di produzione; poi, la pestilenza. Era iniziata in oriente, ma attraverso i porti commerciali – Messina, Genova, Marsiglia – si diffuse nel Tirreno e poi per l’Europa tutta, fino a Stoccolma, fino a Mosca. Gli scambi, di uomini e cose, divennero portatori del contagio. Scomparvero villaggi e classi sociali. Cambiò la geografia persino – gli spazi dell’uomo. Le città si chiusero al mondo.
Ci fu chi disse che la peste era conseguenza della crisi, chi perseguitò gli ebrei fino a quasi cancellarli dalla faccia della terra, chi guidò ribellioni, soffocate nel sangue, contro le tasse, chi perse fortune e chi ne guadagnò, chi dipinse il trionfo della morte, chi da ciarlatano si improvvisò guaritore e dottore, chi predicò l’arrivo dell’Anticristo e la fine del mondo. Chi si raccolse nella meditazione individuale – nella devotio. Cambiò perciò non solo il senso profano della comunità, ma anche l’idea del sacro. L’Europa si smarrì – ci furono molti più morti che nella Prima guerra mondiale – e passarono secoli prima che si riprendesse.
Non sono buono all’attualità della politica – in verità, sono un buono a nulla – epperciò per quanto il racconto del XIV secolo mi sembri metafora suggestiva, non riesco a cavarne pratiche per il dire e indicazioni per il fare nell’oggi. Se non questa: che la carestia che stiamo attraversando e la pestilenza che è seguita produrranno di certo “una fine del mondo”. E il mondo che andrà finendo – lo Stato come lo abbiamo inteso, il lavoro come lo abbiamo vissuto, la produzione, gli scambi e il commercio, e le vie di comunicazione e i confini e i dazi e le tasse, e il mondano e il sacro – che sia «per le nostre inique opere o per operazione dei corpi celesti», non potrà risorgere.
In qualche modo che ci appare ancora oscuro l’Europa si va rivoltando contro la tecnica, la tecnica della politica, la tecnica dell’amministrazione, la tecnica del denaro, la tecnica costituzionale, la tecnica della democrazia, la tecnica della ricerca scientifica, la tecnica dei trattati di pace. E noi, noi europei, non siamo più da tempo i “padroni” della tecnica – che si è spostata ancora più verso occidente o si è incamminata di nuovo verso oriente, rendendoci marginali – ma di certo siamo quelli che hanno messo la tecnica al centro del pensiero e della storia. E sta qui un nostro avere ancora un ruolo nel mondo.
Quello che sta accadendo in Europa è questo, un ritorno al sangue. Che è sempre un ritorno al misticismo.
È la fine della modernità – per come la intendiamo noi europei, da Cromwell fino ai giorni nostri; dall’Illuminismo fino ai giorni nostri. E, in un certo senso, dalla fine della peste nera fino ai giorni nostri. La nuova peste nera, il grande smarrimento di fronte a ciò che accade sotto i nostri occhi, porta con sé la diffusione di un contagio – «enfiature, le quali i volgari nominavan gavoccioli» – che tutto attinge, gli uomini e le cose, le istituzioni e il senno.
Dirò questo: dopo la “lunga guerra civile europea”, iniziata con la Prima guerra mondiale e terminata con la fine della Seconda, abbiamo vissuto un lungo periodo di pace. L’Europa aveva già vissuto guerre lunghe trent’anni e, per la verità, anche cent’anni. E violenze e devastazioni terribili, che ridisegnavano confini e appartenenze e forme del vivere. Per quanto a noi contemporanei spesso le motivazioni di quelle guerre possano apparire assurde e incongrue – esse animavano le genti e disegnavano con chiarezza ciò che era ostile e nemico e ciò che era alleato e amico. E in esse, gli uomini poterono compiere non solo gesta orribili ma vivere sentimenti e passioni di coraggio e codardia, di fratellanza e viltà – riconoscersi come essere umani, disconoscere l’altro come tale. Per quanti orrori esse abbiano comportato e sofferenze, le guerre europee furono sempre segnate dalla politica, dalla concentrazione o dalla diffusione del potere, dalla formazione di Stati e monarchie, dall’affacciarsi e affermarsi di nuove classi sociali e dall’estinguersi di altre.
La peste nera invece avvolge l’Europa nel buio, nell’ignoranza e nell’oscurantismo. Nella paura. L’altro, chiunque altro, venga da lontano a portare stoffe e spezie o solo da pellegrino, o sia il vicino di casa, è il nemico – porta con sé il contagio. Se tutto è nemico, nessuna distinzione tra ciò che è amico e nemico è più possibile.
È il tempo, questo, dei ciarlatani «de’ medicanti (de’ quali, così di femine come d’uomini senza avere alcuna dottrina di medicina avuta giammai, era il numero divenuto grandissimo)». Dell’annunzio dell’Anticristo. Della predicazione della purezza e della salvezza del sangue contro i malati di «gavoccioli», quelli dalla carne ormai corrotta e putrida. La peste colpisce senza riguardi, in alto e in basso, a destra e sinistra, avanti e indietro, nello spazio e nel tempo – nella memoria.
L’Europa non morirà e il mondo non finirà. E come allora, la salvezza starà nell’aprirsi al mondo, nell’inventare nuove forme della produzione e degli scambi, e nuove istituzioni. Nel dare forma nuova all’Europa, ai suoi territori, ai suoi spazi, alle sue geografie, alle sue città.
Nell’inventare un nuovo agire politico.
Epperciò, è nello sguardo verso il futuro che possiamo combattere la peste e non in nome di un mirabolante passato – tutto è stato attinto dalla peste, e con ogni probabilità noi stessi, perché saremmo dovuti restarne immuni?
Di questo sarei lieto ragionassimo. «Adunque, – disse la reina – se questo vi piace, per questa prima giornata voglio che libero sia a ciascuno di quella materia ragionare che più gli sarà a grado».

Nicotera, 5 settembre 2018.

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