Lettere di Ungaretti: quel Pasolini è un pederasta ma è un gran romanziere.

Seicentotrenta carte raccolte in cartelline bianche e circa centosettanta lettere appartenute a Giuseppe Ungaretti sono state comprate pochi giorni fa all’asta dalla Biblioteca Nazionale di Roma. Nella corrispondenza spicca tra l’altro lo scambio epistolare con Pier Paolo Pasolini. Per un’occasione “speciale”.
«Era una caldissima giornata di luglio. Il Riccetto che doveva farsi la prima comunione e la cresima, s’era alzato già alle cinque; ma mentre scendeva giù per via Donna Olimpia coi calzoni lunghi grigi e la camicetta bianca, piuttosto che un comunicando o un soldato di Gesù pareva un pischello quando se ne va acchittato pei lungoteveri a rimorchiare».
È l’incipit di Ragazzi di vita, il romanzo del 1955 di Pasolini che appena apparve creò scandalo. Raccontava la storia di un gruppo di ragazzetti di una borgata romana nell’immediato dopoguerra, che vivono di piccoli espedienti e furtarelli e in ambienti familiari dove domina l’indifferenza reciproca, quando non l’aggressività, tra ubriachi molesti, ragazze incinte per caso e malati gravi dove l’unico imperativo è la sopravvivenza. Riccetto attraversa la propria linea d’ombra verso l’età adulta, mentre intorno i compagni vanno in galera – dove va lui stesso – o muoiono o si prostituiscono, e finalmente diventa “grande”, che poi significa abbandonare una vita di stenti e di istinti e irreggimentarsi in un tran tran che aspira alla tranquillità della piccola borghesia, una condizione di sicurezza che peraltro difficilmente potrà raggiungere. Tutto ruota intorno l’Aniene, e le due scene tra cui scorre il racconto sono il tuffo di Riccetto ragazzo che sfida le acque per salvare una rondine che sta affogando e la decisione, ormai è adulto, di non muoversi quando un amico in acqua sarà afferrato dai gorghi e dai mulinelli perdendo la vita, mentre lui sta a guardare e si defila. È la vita del sottoproletariato romano di quegli anni.
La critica letteraria non amerà quella cifra stilistica di una “parlata romanesca” in presa diretta e quel realismo così povero di eroi e zeppo di sventurati; la sinistra lo infilzerà – Asor Rosa, Salinari («Pasolini sceglie apparentemente come argomento il mondo del sottoproletariato romano, ma ha come contenuto reale del suo interesse il gusto morboso dello sporco, dell’abbietto, dello scomposto e del torbido, «Il Contemporaneo», 9 luglio 1955) – e la destra vorrà il suo scalpo: troppe prostitute, troppi omosessuali, troppa sessualità esibita, troppo degrado compiaciuto. Così, a un certo punto il governo – il governo – chiederà alla Procura di Milano di procedere: «Per gli eventuali procedimenti di competenza, si segnala l’acclusa pubblicazione Ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini, editore Garzanti, Milano. Nella pubblicazione si riscontra carattere pornografico. Il capo del servizio». È il 21 luglio 1955.
A ottobre inizieranno le indagini preliminari della Procura e a gennaio 1956 il processo che, tra udienze e rinvii, terminerà esattamente un anno dopo la segnalazione del governo. E pensare che quando Pasolini invia a Livio Garzanti il dattiloscritto di Ragazzi di vita crede di dovervi apportare giusto qualche minimo intervento. Invece, come scriverà Pasolini a Vittorio Sereni, Garzanti è stato preso da «scrupoli moralistici». Troppe parolacce, troppa violenza, troppe situazioni spinte. Troppe bestemmie. Troppe pagine che sembrano fatte apposta per portare dritti in tribunale. E sarà un vero ultimatum: o il romanzo si taglia e si corregge, o non si fa. Per Pier Paolo saranno «i giorni atroci» dell’autocensura. Ma in tribunale c’erano finiti lo stesso.
Il libro, intanto, respinto al premio Strega e al Viareggio, aveva avuto un successo inaspettato e strepitoso. Pasolini e Garzanti andranno assolti. Ma l’idea di una situazione penosa rimane; scriverà Pasolini: «Questo processo mi ha così umiliato e depresso in questi mesi che non sono più riuscito a lavorare al nuovo libro». Quell’Italia ipocrita e bigotta è ancora forte. E, all’opposto, hanno spazio nella narrazione popolare solo i racconti dell’uscita dal fascismo e della Resistenza o proletari dalla forte coscienza di classe. Pasolini è guardato con sospetto da tutti. Da quasi tutti. Carlo Bo, il grandissimo critico cattolico, dirà che il libro è ricco di valori religiosi «perché spinge alla pietà verso i poveri e i diseredati». E poi c’è Ungaretti.
«Carissimo Ungaretti, il 4 luglio ho il processo a Milano. Sono almeno dieci giorni che mi avvicino all’apparecchio per telefonarLe, e ci rinuncio sempre, scoraggiato dalle richieste che Le devo fare. […] Devo chiederLe se può venire su a Milano quel giorno a farmi da testimone: Suoi compagni di sventura sarebbero Schiaffini e Contini (Al ritorno potremmo passare dal Forte, a salutare gli amici che sono là, De Robertis, Bertolucci… e se sarò assolto, festeggiare l’assoluzione). Ecco dunque scritto il programma che non ho avuto coraggio di dire a voce. Penso che non ci sia bisogno ora, con Lei, di ricorrere alla captatio benevolentiae, alla peroratio. Questo processo mi ha così umiliato e depresso in questi mesi che non sono più riuscito a lavorare al nuovo libro; […] Non posso che dirLe che spero molto nel Suo entusiasmo e nella Sua generosità, e ripeterLe che sono infinitamente addolorato per questa mia coazione. Mi perdoni. E riceva i più affettuosi saluti dal suo dev.mo. Pier Paolo Pasolini. Roma 25 giugno 1956».
Ungaretti stimava perciò Pasolini. Sul piano personale – era pur sempre un uomo di fine Ottocento – dirà cose terribili; dell’omosessualità per esempio scrive: «Il male è diffuso, e si diffonde in modo da mettere allarme e spavento». Di Pasolini annota che «sebbene pederasta e anche perché pederasta, riesce ad essere vero poeta, diventa puro, anche se della purezza del demonio…». Ciò premesso, «la pederastia mi ha sempre fatto ribrezzo». Ma qui gli si chiede – facendo appello al suo entusiasmo e alla sua generosità – di esporsi in prima persona, di spendersi in un’aula di tribunale. Sarà poi la malattia della moglie a impedire a Ungaretti di testimoniare in aula a favore di Pasolini. Ma scriverà una lettera ai giudici: ««Ho letto Ragazzi di vita, e stimo sia uno dei migliori libri di prosa narrativa apparsi in questi anni in Italia. Questa mia convinzione l’ho dimostrata sostenendo il romanzo prima per il premio Strega, poi per il premio Viareggio, promuovendo da parte di Letture Critiche, società che presiedo, un pubblico dibattito sul romanzo stesso. La discussione, diretta dal prof. Schiaffini, si concluse con la generale ammissione che si trattasse di un libro casto. Le parole messe in bocca a quei ragazzi, sono le parole che sono soliti usare e sarebbe stato, mi pare, offendere la verità, farli parlare come cicisbei. D’altra parte è libero compito del romanziere rappresentare la realtà com’è. Non si può chiedere a uno scrittore che abbia coscienza dei suoi doveri di fare come lo struzzo o peggio di fare l’ipocrita davanti a piaghe sociali tanto più esigenti una denunzia in quanto sono ragazzi e bimbi ad esserne le vittime più gravemente colpite. Pasolini non solo ha sentito con raro impeto dell’animo questo dovere, ma ha anche avuto il merito di sollevare sempre la sua narrazione ad un alto grado di poesia. Pier Paolo Pasolini è lo scrittore più dotato che oggi possediamo in Italia. Ogni sua attività: romanzo, critica, erudizione, poesia, è prova di un impegno estremamente serio ed offre risultati che onorerebbero chiunque».
Questa era l’Italia degli anni Cinquanta.

Nicotera, 12 giugno 2018.
pubblicato su “il dubbio”, quotidiano del 13 giugno 2018.

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