Pierre Carniti e il salario operaio.

«Un capitale variabile, ad esempio di 100, rappresenta (a un dato salario e a una data giornata lavorativa) un numero determinato di operai messi in movimento; esso è l’indice di questo numero». Ecco, Marx diceva questa cosa di qua. Poi arrivò Pierre Carniti: «il salario è una variabile indipendente». E cioè: agli operai non gliene importa una mazza del rapporto con il capitale costante, gli ammortamenti e gli investimenti, agli operai ci interessano i piccioli. Punto e a capo. Successe il finimondo.
Nel ricordo del sindacalista abbondano i riferimenti al suo schierarsi nel referendum sul taglio dei due punti di scala mobile voluto da Craxi con il segretario del Psi e contro la Cgil e il Pci. «Volete voi l’abrogazione dell’articolo unico della legge 12 giugno 1984, n. 219 (pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 163 del 14 giugno 1984), che ha convertito in legge il decreto-legge 17 aprile 1984, n. 70 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 107 del 17 aprile 1984), concernente misure urgenti eccetera eccetera?» Vinse il No con il 54,32 percento. Ma era il 1985 – e la sconfitta operaia s’era già consumata tutta nelle fabbriche.
È il 26 settembre 1980 e Enrico Berlinguer è arrivato davanti ai cancelli della Fiat per parlare agli operai. Sta per prendere la parola alla porta cinque quando Liberato Norcia, delegato della Fim-Cisl, uno dei leader del consiglio di fabbrica di Mirafiori, afferra il microfono e chiede: «Ma se i lavoratori decidessero di occupare la Fiat, il Pci che farebbe?» Berlinguer, che è un uomo pacato, scandisce le parole e dice che se si dovesse giungere «a forme di lotta più acute, comprese forme di occupazione, sarebbe sicuro l’impegno politico, organizzativo e anche di idee e di esperienza del Partito Comunista». Per tutti significò che il Pci ci stava.
La scintilla era stata l’annuncio dei 14.469 licenziamenti che Cesare Romiti, amministratore delegato della Fiat, aveva dato l’11 settembre. È subito chiara la posta in gioco; la Fiat ha due obiettivi: il primo è competere con le imprese “emergenti” del mercato mondiale dell’auto, anche godendo di un sostanzioso contributo di duemila miliardi di lire messo a disposizione dallo Stato; il secondo è l’eliminazione definitiva dei comportamenti conflittuali operai, riprendersi il “governo” della fabbrica. Dal 13 inizia lo sciopero a oltranza con il presidio dei cancelli e il blocco di qualsiasi movimento di uomini e merci da Mirafiori e dagli altri stabilimenti. Una lotta lunga 35 giorni che si conclude il 14 ottobre quando 40.000 capi e quadri intermedi della Fiat sfilano per le vie di Torino urlando: “Vogliamo lavorare in pace”. Il giorno dopo viene firmato l’accordo che prevede la cassa integrazione per 23.000 lavoratori. Nel mezzo, c’erano state assemblee di fabbrica durissime, lo striscione enorme con il faccione di Marx appeso davanti la fabbrica, le trecento denunce partite dall’azienda contro i lavoratori che avevano fatto i picchetti, la manifestazione nazionale indetta dalla FLM, la federazione nazionale dei metalmeccanici per il 25 settembre a Torino, anche contro il parere di Cgil, Cisl e Uil, e la contestazione al comizio di Pierre con gli operai che gli urlavano addosso: «No ai licenziamenti, No alla mobilità, No alla cassa integrazione», e poi “l’accordo-bidone” che viene rifiutato dai delegati ma Carniti e Benvenuto (era lui, segretario dei meccanici della Uil, che aveva detto in un comizio a Mirafiori: «O molla la Fiat o la Fiat molla») ci vanno lo stesso a parlarci e metterci la faccia – e si prendono i fischi. Questo era stato.
Mill’anni prima di quel 1985, quando era scoppiata la rivolta operaia nel 1969, in fabbrica vigeva «un complessivo processo di dequalificazione delle prestazioni lavorative, con una moltiplicazione quantitativa e insieme omologazione qualitativa delle mansioni». Era la produzione fordista: catena di montaggio, braccia meridionali, e stai giù in silenzio a lavura’. Furono i giovani a accendere la miccia, in prima linea quelli del sud e i meno qualificati, e il mondo si rovesciò. Angelo Costa, presidente di Confindustria, non voleva proprio sentire parlare di aumenti salariali.
«Dice che con gli scioperi si distrugge ricchezza?», gli aveva risposto Ennio Furchì, operaio all’officina 13 di Mirafiori – lo ricorda Marco Revelli, nel suo Lavorare in Fiat. «Ma quanta ricchezza si distrugge quando milioni di miei compaesani meridionali non possono lavorare? Quanta ricchezza si distrugge quando un operaio a quarant’anni si sente finito? E questa è ricchezza vera, sono uomini in carne e ossa».
Scrisse Guido Carli – che allora era governatore della Banca d’Italia: «l’esplosione arrivò tra il 1969 e il ’71, quando la massa dei lavoratori dell’industria, sia attraverso le contrattazioni nazionali che quelle integrative aziendali, conquistò sostanzialmente un salario di livello europeo, con una produttività stagnante o discendente, e con una serie di normative sulla rigidità d’impiego della forza-lavoro quali non esistono in nessun altro paese industriale».
La Federazione metalmeccanici della Cisl scavalcò tutti a sinistra, e Carniti, che ne era il segretario e comunque considerava sempre preziosa l’unità sindacale, faceva fuoco e fiamme: «il salario è una variabile indipendente». Guido Carli se la prese con Donat-Cattin, democristiano e ministro del Lavoro, accusandolo di avere favorito l’appiattimento salariale al rialzo. Se la prendeva pure con il parlamento, per via dello Statuto dei lavoratori, che era stato approvato con l’astensione del Pci, «una gabbia rigidissima». Divenne proverbiale per quei suoi “lacci e lacciuoli”. Contro Donat-Cattin tuonava anche Giovanni Agnelli, che raccontò dopo, in un’intervista a Zavoli: «L’allora ministro del Lavoro non concluse la trattativa con i metalmeccanici fino a quando io non consentii, dopo parecchie ore di resistenza, a riassumere in fabbrica un centinaio di operai che si erano resi responsabili di violenze».
Donat-Cattin detestava Carniti – lo considerava un nemico della Democrazia cristiana – ma non ebbe dubbi dove schierarsi nello scontro tra sindacati e padronato. Alla fine, gli aumenti ottenuti dai lavoratori furono superiori al tasso d’inflazione. Costa, presidente di Confindustria, scrisse una lettera sconsolata al presidente del Consiglio Rumor.
Questo era stato, prima della sconfitta del 1980. E prima del referendum del 1985 sulla scala mobile – come sono sempre complesse le cose – c’era stata la svolta di Lama e della Cgil all’Eur. In una famosa intervista a Eugenio Scalfari, nel gennaio 1978, Lama disse: «Un sistema economico non sopporta variabili indipendenti. I capitalisti sostengono che il profitto è una variabile indipendente. I lavoratori e il loro sindacato, quasi per ritorsione, hanno sostenuto in questi anni che il salario è una variabile indipendente. Ebbene, dobbiamo essere intellettualmente onesti: è stata una sciocchezza, perché in un’economia aperta le variabili sono tutte dipendenti una dall’altra». Fine della storia. Anche se un gran pezzo di storia era finito nel febbraio del ’77 quando Lama e il servizio d’ordine del Pci erano stati cacciati dall’università di Roma – la frattura vera dentro il movimento operaio tra garantiti e non-garantiti, tra il vecchio lavoro e i nuovi lavori. Poi venne il buio per tutti.
Ma ancora nel 1984 – ora a capo di Confindustria c’era Lucchini che spingeva per una compressione dei salari – quando chiesero a Carniti se il sindacato fosse disposto a un negoziato per rivedere la dinamica dei salari, Pierre disse: «La nostra risposta è no». E aggiunse: «Quando si accetta l’eclissi di ogni regola, tutto diventa possibile per tutti, innescando un conflitto distruttivo. Se gli imprenditori non rispetteranno le scadenze previste per le vertenze aziendali non facciano conto sulla debolezza o sulla compiacenza del sindacato».
Ecco, questa cosa di qua è stato il movimento operaio in Italia negli anni Settanta.

Nicotera, 6 giugno 2018
pubblicato su “il dubbio”, quotidiano del 7 giugno 2018.

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2 risposte a Pierre Carniti e il salario operaio.

  1. Ninni ha detto:

    Si vede chiaramente che in quegli anni “FACEVI ALTRE COSE”, RICOSTRUIRE UNA STORIA COSì COMPLESSA ATTRAVERSO UNA SEMPLICE CRONACA GIORNALISTICA NON E’ DA TE, TI DICO SOLO UNA COSA VEDI CHE «il salario è una variabile indipendente». LO DICEVA ANNI PRIMA QUADERNI ROSSI E TONI NEGRI, MA SO CHE QUESTO NON FA PARTE DEL TUO BAGAGLIO CULTURALE, PIERRE FATTELO DIRE DA UNO CHE HA LAVORATO NELLA FLM PARTE FIM-CISL ERA UN BUON DEMOCRISTIANO DI SINISTRA, DIMENTICHI CHE IL VERO IDEOLOGO DI SINISTRA DELLA FIM FU’ BRUNO MANGHI? LUI SI UN UOMO NUOVO NEL MOVIMENTO OPERAIO ITALIANO. TI HO DETTO TUTTO. TU “HERMANO” Ninni

    • caminiti ha detto:

      avercene buoni democristiani di sinistra, così, oggi. ma pure come donat-cattin, guarda. è solo un articolo di giornale, questo, mica un saggio profondo. ci sono così tanti materiali seri e storici su quel pezzo d istoria sindacale. però, nella sua modestia, è “verificato”. a esempio, non è affatto vero che l’espressione sul “salario indipendente” fosse una formula dei “quaderni rossi” (o negriana, poi). che lavoravano, è vero, sulla questione del salario, ma proprio quella formula lì, concisa, efficace, semplice, riproducibile fu proprio la sua. ho detto tutto

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