A Venezia, a settembre, è arrivata in forma smagliante. Ancora bella, ancora sensuale (odio quando dicono di Jane che «si conserva bene», come fosse uno stoccafisso, un merluzzo surgelato: è ancora una bellissima donna, e basta). A parte i “pezzi” cambiati – un’anca, un ginocchio, un pollice – e dei ritocchini al viso, è un incanto guardarla sorridere, muoversi, solcare il red carpet, dare un’intervista, recitare. Un mio amico cinefilo – di quelli a cui puoi chiedere i nomi delle comparse bianche che facevano gli indiani che assaltavano la diligenza in Ombre rosse di Ford – dice che è più bella adesso, che ha compiuto gli ottanta, auguri, di quand’era ragazza. Ma si sa, i cinefili sono tutti malinconici. Lei, a Venezia c’era arrivata con Robert Reford, per il Leone d’oro alla carriera di entrambi, due monumenti del cinema e del mondo liberal americano. Erano anche lì per presentare Le nostre anime di notte tratto dall’ultimo romanzo di Kent Haruf, la storia di un uomo e una donna dai capelli ormai grigi rimasti soli e che provano a unire le loro vite per combattere la solitudine, mentre intorno monta la malevolenza. E civettavano, pubblicamente, spensieratamente. «L’ho baciato a vent’anni – ha detto Jane – e lo bacio ora, che ne ho quasi ottanta. Ha sempre baciato benissimo». Le chiedono: L’amore cambia invecchiando? «Migliora, risponde Jane, siamo più coraggiosi, la pelle tende a non essere più soda ma conosciamo meglio il nostro corpo. È meraviglioso desiderare una vita sessuale, anche se il sesso non si vede in questo film». «Ci sono sempre gli extra del dvd», aggiunge sornione Redford. E ancora Jane: «Ma digli della prima volta alla Paramount, le segretarie erano pazze di te, si sentiva qualcosa nell’aria e io mi dissi: quest’uomo diventerà una stella». Con Reford è la quarta volta che si incrociano (si sono sfiorati un’altra, nel 1960), dopo La caccia del 1966, A piedi nudi nel parco del 1967 – è quello dell’episodio alla Paramount – e poi ne Il cavaliere elettrico del 1979.
Jane il cinema ce l’ha nel sangue: una vecchia storia hollywoodiana racconta che Bette Davis, sul set di Figlia del vento, dovette girare alcune scene parlando con una parete vuota perché il suo partner, Henry Fonda, era dovuto partire in tutta fretta alla volta di New York per presenziare alla nascita della sua primogenita, Jane appunto. Eppure, all’inizio voleva fare la modella. Fu Strasberg a convincerla a partecipare ai suoi corsi, e poi da lì.
Ma aveva l’Europa, dov’era andata “in visita” dopo il college, nel cuore. La passione per il Vecchio continente era rimasta, tanto che ne sposò un regista, Roger Vadim, gran sciupafemmine, e comparve nuda – la prima volta, per un’attrice americana in un film europeo (cosa che creò gran scandalo negli Stati uniti, il puritanesimo americano ha di queste bizzarrie) – in un suo film del 1964, Il piacere e l’amore. Poi insieme ci fece anche Barbarella, 1968, che era un fumetto di fantascienza francese, e si conficcò nell’immaginario erotico mondiale (s’era visto mai uno spogliarello integrale, uscendo da una tuta spaziale, in assenza di gravità?)
La fine del matrimonio con Vadim si incrocia con una cura più attenta ai ruoli nei film e il suo impegno militante. Lei, Hanoi Jane, si oppose in tutti i modi alla guerra del Vietnam – certo, erano milioni gli americani in piazza contro quella detestabile guerra, ma nessuno andò “a casa del nemico” a farsi fotografare, giugno 1972, vicino un pezzo di mortaio vietcong. Era il primo caso di diva impegnata su questioni politiche, le attrici fino allora venivano usate per “allietare” le truppe con spettacoli e distribuzione di foto autografate. La detestarono, l’American Legion ci fece proprio una campagna di opinione contro, e la boicottarono per anni e anni, e lei, quando tutto era finito, disse che sì, forse quella foto poteva risparmiarsela. Eppure, c’è lei in uno dei più bei film sui veterani, Tornando a casa, di Hal Ashby, del 1978 – Oscar come se piovesse – tra cui proprio quello a Jane (era il secondo, il primo l’aveva preso per Una squillo per l’ispettore Klute, del 1971).
Nel 1973 sposa Tom Hayden. Hayden era uno dei Sette di Chicago. I Sette erano accusati di conspiracy. Un complotto. Cospirazione contro lo Stato. In verità erano otto, l’ottavo era Bobby Seale, che insieme a Huey P. Newton aveva fondato il Black Panther. Ma Seale, che a Chicago c’era arrivato solo gli ultimi due giorni e per sostituire Eldrige Cleaver, fece un tale casino all’inizio, che i giudici decisero di stralciarlo – poi gli diedero quattro anni, per sedici violazioni di disprezzo della Corte –, e così gli otto divennero i Sette.
La Convenzione nazionale del Partito democratico si tenne a Chicago dal 26 al 29 agosto all’International Amphitheatre. Era stato un anno particolarmente drammatico: il dottor Martin Luther King, leader del movimento per i diritti civili, era stato assassinato il 4 aprile al Lorraine Motel, Memphis, Tennessee, da James Earl Ray che aveva sparato dal balcone del secondo piano dell’hotel – appena la notizia s’era diffusa, c’erano state rivolte in più di cento città. E Robert Kennedy, fratello del presidente ucciso a Dallas e che aveva appena avuto uno straordinario risultato nelle primarie del Partito in California, era stato assassinato il 5 giugno nelle cucine dell’Ambassador Hotel, Los Angeles, da un ventiduenne palestinese, Shiran Shiran.
La Convention doveva stabilire chi, a quel punto, sarebbe stato il front runner democratico. E la guerra in Vietnam era il crinale. Il fatto è che il National Mobilization Committee to End the War aveva deciso per quegli stessi giorni un festival della gioventù a Chicago. Anche l’Sds, Students for a Democratic Society, si era mobilitata.
Il 28 agosto al Grant Park iniziò la manifestazione dei giovani. Qualcuno ammainò la bandiera americana del parco e a quel punto la polizia intervenne caricando pesantemente. I protestanti resistevano «We won’t go / non ce ne andremo». È così che partirono i gas lacrimogeni. Fu proprio Tom Hayden a incitare i manifestanti a spostarsi. Se sparavano i gas, e allora che li sparassero per tutta la città. E i giovani arrivano all’Hilton Hotel, proprio dove si sta tenendo la Convention democratica. Le cariche non si fermano. Mazze, bastoni. I ragazzi gridano: «Kill. Kill, kill». E tutto accade sotto gli occhi delle televisioni. I ragazzi cantano: «The whole world is watching / tutto il mondo sta guardando». Diciassette minuti durano le riprese televisive. Il mondo guardava attonito. La città era in fiamme. L’America era in fiamme.
Ecco perché poi li trascinarono in processo, i Sette, che prima erano Otto. Poi, l’accusa di cospirazione cadde, e restò solo una qualche violazione – oltre le offese alla Corte in aula. Al processo di appello andarono tutti assolti.
Hayden aveva allora ventinove anni. Nel 1962 aveva scritto la bozza del manifesto di Port Huron – l’SdS si era riunito in una sede dell’associazione dei lavoratori dell’industria automobilistica. Il manifesto affrontava «le questioni fondamentali della società americana basandosi su una visione radicale per un futuro migliore». Parlava delle questioni dell’ambiente, propugnava una partecipazione democratica, credeva nella disobbedienza civile non-violenta, voleva che si smettesse il ricorso alla guerra e chiedeva una riforma del Partito democratico. Hayden era stato uno dei free riders, i giovani che partivano dal nord del paese per andare negli Stati del Sud e aiutare le lotte dei neri per la registrazione negli elenchi dei votanti e per abolire le forme più odiose della discriminazione razziale, sugli autobus, nei ristoranti, nelle scuole. Subivano agguati e pestaggi da razzisti del Ku klu Klan spesso con la faccia delle istituzioni.
Poi, Hayden era stato responsabile dell’Sds. Fu in Vietnam e il suo impegno contro la guerra si moltiplicò, e qui aveva incrociato Jane Fonda. Insieme, avevano adottato una ragazza afroamericana, Mary.
Quando arrivano gli anni Ottanta e il riflusso, e la separazione da Tom, ecco che si trasforma in guru del fitness, con un business incredibile di videocassette e apparizioni in televisione, e moglie di Ted Turner, il signor Cnn, la tv che riscrive la storia della tv.
Poi, di nuovo una svolta («Ci ho messo molto a capire chi sono, ho passato troppo tempo a pensare che non meritavo di essere amata e sono stata a lungo una donna triste e malinconica» – bisogna pur ricordare che la madre, una socialite canadese che Henry aveva incontrato durante le riprese di un film, s’era suicidata, quando Jane aveva dodici anni, tagliandosi la gola con un rasoio, tre mesi dopo che Henry aveva chiesto il divorzio), per affrontare di gran carriera i 50 anni. Oggi pubblicizza creme di bellezza, scrive libri di buoni consigli, gira film d’autore (di recente è apparsa in Youth – La giovinezza di Paolo Sorrentino), accetta la nuova sfida della piattaforma Netflix (che ha prodotto e distribuito Le nostre anime di notte) con un seriale, Grace and Frankie.
Forse ha proprio ragione il mio amico cinefilo, Jane è più bella adesso.
Nicotera, 22 dicembre 2017
pubblicato su “il dubbio”, quotidiano del 23 dicembre 2017
L’ha ribloggato su Alessandria today.