Era il 1965 e avevo sedici anni. E io auguro a tutti di avere sedici anni almeno una volta nella vita. «A tutti i ragazzi maggiorenni e a coloro in ascolto: la trasmissione è indirizzata esclusivamente ai giovani al di sotto dei 18 anni. Chi non lo è… e deciderà comunque di ascoltarlo… lo farà a suo rischio e pericolo». I miei sedici anni furono segnati da quell’avviso di Gianni Boncompagni che introduceva Bandiera gialla.
Sabato pomeriggio, ore 17.40. Tutti incollati lì alla radio. Era un rito solitario ma che teneva assieme nello stesso momento una comunità, una generazione. La radio per i giovani. Uno strumento che era diventato “vecchio” da quando avevamo introdotto le televisioni nelle nostre case, restandone rapiti e spesso incantati in un rito collettivo – i grandi sceneggiati, i quiz, il musichiere, visti tutti insieme, famiglie allargate –, e che improvvisamente, riappropriato, rovesciato, scoprivamo come potesse essere “nostro”. E una cosa completamente nuova. C’erano le canzoni in inglese, le novità dall’America, il rock finalmente e non quelle melensaggini di Non ho l’età, un linguaggio spregiudicato, l’ironia, la leggerezza, il sarcasmo contro un mondo antiquato, insopportabile. Attenzione, attenzione, potete metterci in quarantena, potete avvisare il mondo che siamo appestati, ma stiamo arrivando. Saprai / quando c’è bandiera gialla / che la gioventù è bella / e il tuo cuore batterà.
Il mondo è nostro, ce lo prenderemo. E ce lo prendemmo. Ossì, se ce lo prendemmo. Cantando, ballando, ridendo, con l’arroganza propria della giovinezza, all’inizio. La lotta, la piazza, la bandiera rossa vennero dopo. Prima c’era stata la bandiera gialla. Mai mai essere giovani aveva segnato la storia, il costume, l’economia e la politica d’un tempo. Forse fu il mercato che “inventò” i giovani, per moltiplicare consumi di massa e nuove merci. O forse accadde il contrario, fu il mercato, l’economia, a capire che un nuovo soggetto sociale era nato – e non era segnato dal mestiere, dalla classe di nascita o di appartenenza, dalla professione, dalla ricchezza, dal censo e dalla famiglia; era segnato dall’età, dalla generazione, dalla giovinezza: essere giovani era diventato improvvisamente un valore; essere vecchi era diventato improvvisamente un peso. Successe a noi, successe con noi. Siamo noi / siamo noi, bandiera gialla / Vieni qui che qui si balla / ed il tempo volerà. Per l’Italia, un paese dove la convenzione sfiorava l’ipocrisia, le buone maniere sfociavano nel moralismo e nel bigottismo e qualsiasi innovazione era vista come uno zampino del diavolo che avrebbe presto incrinato l’impalcatura in cui ogni cosa stava al suo posto – una trasformazione straordinaria.
Gianni Boncompagni, morto ieri a 84 anni, fu lo gnomo geniale di quella trasformazione. Si era incontrato, dopo un concorso da maestro programmatore, con Renzo Arbore e volevano cambiare le cose per come si fruiva la musica e per la musica che si fruiva: avevano, entrambi, una conoscenza mostruosa della musica e un talento innegabile. Presentarono un progetto di trasmissione alla Rai, e alla Rai presero tempo: il titolo presentato, Sound, forse era troppo impegnativo e innovativo, troppo anglofilo. Poi, il colpo di genio: chiamarono il programma Bandiera gialla, e già se ne prendevano le distanze. Era la Rai di Ettore Bernabei, democristiano fino al midollo ma di quelli che pensavano che gli strumenti di comunicazione di massa – la radio, la televisione – dovessero essere usati per un uso “pubblico”. E come si poteva tenere fuori dal “pubblico” i giovani? Non si poteva più. Se guardi le foto di studio di quegli anni, vedi un Boncompagni in cravatta e giacca e tante ragazze in minigonna e ragazzi con maglioni e camicia e con gli occhiali. Se guardi le foto delle prime contestazioni alle università e i primi cortei del Sessantotto, “i ragazzi” sono proprio così: con la giacca e la cravatta e dei grandi occhialoni; e le ragazze sono proprio così, con le minigonne e un caschetto di capelli lisci lisci.
Poi, anni Settanta, venne Alto gradimento (durò fino al 1976), tra il lunedì e il venerdì dalle 12.30 alle 13.30, e la messa in berlina dei “caratteri” italiani: non si salvava nessuno, il professore Aristogitone che “dopo quarand’anni di insegnamendo, quarand’anni di duro lavoro fra queste quattro mura scolastiche” era finito in miseria da una lontana parente, rimpiangendo i bei tempi quando la scuola era scuola e i professori erano un’autorità; il colonnello Buttiglione, poi diventato generale Damigiani, sempre pronto a andare in guerra con un esercito la cui unica vocazione erano inutili commissioni di vettovagliamento e approvvigionamento; il fascistone Catenacci che ancora esaltava e magnificava le doti del Duce e l’amore che gli italiani gli portavano – Duce di qua, Duce di là – inventando episodi di avventure mai accadute; lo studente Verzo che non aveva voglia e genio di studiare e si improvvisava contestatore, sgrammaticando qualsiasi buon proposito; l’improbabile giornalista di cronaca nera Max Vinella; e tutta una sequela di personaggi grotteschi, surreali, come lo Scarpantibus, uccello preistorico sopravvissuto nel deserto del Nicaragua e che indossava scarponi militari slacciati, o sopra le righe, come l’ossesso che a qualsiasi questione reagiva urlando In galera, in galera, nati dalla follia creativa di Mario Marenco e Giorgio Bracardi.
Personaggi presi dalla strada, dalla vita – mai così reali – ma “fissati” in un unico tic, in un’unica espressione, in un unico modo di dire: tormentoni ripetuti fino al grottesco, alla mania, alla paranoia. Al magico realismo. Avevano successo, diventando proverbiali, diventando presenze continue nelle chiacchiere d’ogni giorno ma anche nelle discussioni più pretenziose, perché ognuno conosceva esattamente – erano il vicino di casa, il professore avuto, la signorina di buone maniere che frequentava casa delle vecchie zie, il pensionato che si incontrava al bar – quei personaggi, e poteva riscontrare in ciascuna di queste persone il “carattere” di quei personaggi.
Segnarono, quella trasmissione di musica e questa di intrattenimento, il modo di fare radio – le radio libere, poi, vengono da lì, da quel rovesciamento del palinsesto in una modulazione che non era rigida come un cadavere ma mobile, virandone la leggerezza in serietà e rigore di impegno – per sempre.
Boncompagni poi – oltre a scrivere da sempre canzoni di grandissimo successo per Jimmy Fontana, per Patty Pravo, per Renato Zero, per Raffaella Carrà – fece televisione, tanta televisione, con alterne fortune, ma è per Non è la Rai che lo si ricorda. Sono gli anni Novanta e la televisione sta cambiando per sempre, con le nuove televisioni “commerciali”, Canale 5 e Italia 1: lui porta le adolescenti, quindicenni svampite e maliziose sullo schermo televisivo, da irreggimentare nelle mossette e da pilotare anche con l’auricolare “da remoto”, giocando con le ossessioni erotiche degli italiani, le nascoste voglie da guardoni; la trasmissione dovette adattare scenografie e costumi alle proteste di questo o quel comitato di genitori e bacchettoni, ma il successo era garantito. Uno stuolo di giovani donne, che diventeranno poi volti conosciuti di mille trasmissioni, crescendo insieme alla tv, agiteranno i sogni degli italiani.
Uomo di grande mestiere e acuta intelligenza affronterà gli anni “dopo” con acume. Siamo negli anni Ottanta – diceva parlando della sua età e del tempo recente – piuttosto che nei Settanta. Il suo cuore era ancora lì, a quel tempo favoloso in cui fare la radio era mettere le cose sottosopra.
Ora, quei suoi strani e grotteschi “caratteri” – In galera in galera – di cui si rideva da matti erano usciti dalla fantasia dello studio e li trovavi intervistati, seriosi, in parlamento pure. Erano diventati veri. In carne e ossa.
Santa Maria di Licodia, 17 aprile 2017
pubblicato su “il dubbio”, quotidiano del 18 aprile 2017