A meno che non abbiate fatto come Gabriele Polo e Mariuccia Ciotta, direttori del quotidiano «il manifesto» che nella notte decisiva – 2 novembre 2004 – dello spoglio per l’elezione tra Kerry e W. Bush enfatizzarono le proiezioni che a mezzanotte e quaranta davano Kerry vincente negli swing States, gli Stati in bilico, e titolarono festosi il giornale del giorno dopo Good Morning, America, e se n’andarono a letto che s’era fatta una certa, uscendo al mattino proprio mentre, amara sorpresa, veniva dichiarato vincitore il repubblicano W. Bush, bene, vi sarete armati di pazienza e avrete aspettato fino alla fine.
D’altronde, il 3 novembre 1948, il giorno dopo le elezioni che vedevano contrapposti Harry Truman e il candidato repubblicano, governatore dello Stato di New York, Thomas Dewey, il «Chicago Tribune» aveva titolato: Dewey defeats Truman / Dewey sbaraglia Truman. La cosa divenne famosa perché Truman, che invece vinse alla grande, si fece fotografare, gongolante, con una copia del «Chicago» in mano, alla stazione di St.Louis mentre tornava da casa sua, Indipendence, Missouri, a Washington D.C. Il «Chicago» – che doveva chiudere presto e non aveva tutti i risultati ancora – si era basato sui sondaggi e sulle previsioni del suo corrispondente da Washington, che aveva indovinato l’esito di quattro su cinque precedenti elezioni. L’elezione di Dewey era considerata inevitable. Non era andata così.
8 novembre. La cronaca.
Il candidato repubblicano ha fatto un salto in Messico per il pranzo, con un paio di collaboratori. Ha votato presto nella sua città, in California, e poi ha guidato fino a Tijuana per pranzare. Tornando indietro, deliberatamente non ha voluto ascoltare le notizie dalla radio in auto, ma arrivato all’Ambassador Hotel di Los Angeles verso le cinque ha acceso la tv. Nell’est erano le otto e lui stava già dietro. Un’ora più tardi – con solo l’otto percento dei voti spogliati e le elezioni ancora in corso a ovest – la Cbs dava la vittoria al candidato democratico. Tutti i nostri computer danno vincente il candidato democratico – stava dicendo il conduttore della Cbs.
Anche la Nbc stava predicendo la vittoria del candidato democratico, ma quando la corsa era diventata più ravvicinata, cominciarono a fare marcia indietro. Avevano dato l’Ohio ai democratici, poi dissero che era dei repubblicani. Più tardi Cbs e Nbc dissero che la California era per i democratici, ma verso la fine si convinsero che fosse per i repubblicani.
Prima di mezzanotte a est, il «New York Times» preparava i titoli: Vittoria per i Democratici. Ma il candidato repubblicano non mollava e la corsa era troppo ravvicinata per stabilire già chi fosse il vincitore. Qualcuno disse che la macchina elettorale democratica avrebbe fatto carte false e avrebbe rubato abbastanza voti per far vincere il proprio candidato. Si riferivano agli Stati dove i Democratici la comandavano, ma mentre la notte avanzava in Illinois era il candidato repubblicano a prevalere. Il campaign manager dei Democratici per l’Illinois era devastato. Piangeva. Chiamava quelli dello staff del candidato e gli diceva: «Non ho più la faccia per presentarmi. Ho perso il mio Stato e questo significa che perderemo la presidenza». Qualcuno, all’improvviso, gli disse di piantarla. Lo spoglio dei voti stava dando l’Illinois ai Democratici. Qualcuno dello staff dei Repubblicani si accorse che c’era qualcosa che non tornava.
Verso le tre di notte (ora dell’est) sembrava ormai chiaro che la vittoria era per il candidato democratico. Il candidato repubblicano pensò di fare un salto tra i suoi supporter e dire qualcosa del tipo «se i risultati continuano così, sarà il candidato avversario il prossimo presidente degli Stati uniti». Ma poi non se ne fece nulla.
Intanto il vantaggio del voto nazionale per i Democratici andava scemando, prima erano ottocentomila, poi seicentomila, adesso meno di mezzo milione. Il candidato repubblicano si prese Washington e l’Oregon. In Illinois non si riusciva ancora a capire come fosse finita. E così in California e in Minnesota. Se il candidato repubblicano li avesse presi tutti, sarebbe stato lui il presidente.
Quando è andato a dormire, poco dopo le quattro del mattino del 9 novembre, non si sapeva ancora chi avesse vinto. Un paio d’ore più tardi, lo ha svegliato la figlia, con il risultato.
È stata una delle corse presidenziali più ravvicinate di sempre. Solo 113.000 voti hanno separato i due candidati.
Beh, questa era la cronaca della notte dell’8 novembre del 1960, e in corsa c’erano il repubblicano Nixon e il democratico Kennedy. Nixon avrebbe vinto se avesse preso il Texas, dove perse per 46.000 voti, o l’Illinois, dove perse per meno di 9.000 voti.
Ritornando a Washington in volo, Nixon fu tempestato di argomentazioni dal suo campaign manager che si diceva sicuro i Democratici avessero combinato pasticci in Illinois, Texas, Missouri e New Mexico. Nixon ascoltava ma non sembrava particolarmente reattivo. Era esausto.
A Washington i repubblicani stavano facendo fuoco e fiamme: il senatore Everett Dirksen, un patriarca, dichiarava a voce alta che in Illinois c’era stato un furto di voti. Il senatore dell’Arizona, Barry Goldwater, gli faceva eco, dichiarando che Chicago era “la più corrotta macchina elettorale degli Stati uniti”.
Il senatore del Kentucky, Thruston Morton, capo del Comitato nazionale repubblicano, cercò Nixon perché chiedesse il riconteggio dei voti. Venerdì, tre giorni dopo il voto, Nixon rilascia una dichiarazione in cui ammette la vittoria di Kennedy. Ma il partito non la pensa allo stesso modo. Le proteste vanno avanti per anni, ed emergono molti casi di frode, che però non sembrano mutare il risultato elettorale. Dopo anni di lotte, i Repubblicani decidono nel 1962 d’abbandonare le proteste per le frodi subite e di concedere il risultato.
Ciò nonostante, il «Chicago Tribune» (sempre lui) titolerà che «le elezioni sono state condizionate da frodi ch’evidenziano che il candidato Nixon è stato privato d’una vittoria certa». A Gore, con W. Bush, andò più o meno così pure.
«Gli elettori avevano cominciato a votare, nei villaggi del New Hampshire, a mezzanotte, come sempre del resto. Ma per il momento il risultato era imprevedibile: invisibile. All’ora in cui il candidato lasciò il suo albergo, parecchi milioni di elettori avevano già votato da un capo all’altro del paese: in edifici scolastici, biblioteche, chiese magazzini, uffici postali. Anche quei voti erano invisibili. […] Tutto questo è invisibile perché è essenziale all’atto che, mentre vien compiuto, esso sia un mistero in cui milioni d’individui fanno combaciare assieme i singoli frammenti di un vasto segreto, ciascuno di essi ignorando l’aspetto del tutto. Il frastuono e gli schiamazzi, le fanfare e le ovazioni, le sfilate e i comizi della lunga campagna elettorale, tutto questo nella giornata in cui si vota sparisce. I programmi sono stati attuati, gli sforzi esauriti, ai candidati non resta che attendere». (Theodore H. White, Come si fa il presidente, 1961)
Ecco, è questo che è accaduto.
Nicotera, 8 novembre 2016
pubblicato su “il dubbio”, quotidiano del 9 novembre 2016