Crisi della democrazia, i referendum sono la risposta?

houellebecq_inrockuptiblesNell’ultimo numero del settimanale francese «Les Inrockuptibles», con Michel Houellebecq nelle insolite vesti di caporedattore, c’è un’interessante “reciproca” intervista tra lo scrittore e il ministro dell’Economia francese Emmanuel Macron. Gli argomenti che vengono toccati sono diversi, ma su uno in particolare entrambi si soffermano, la crisi della rappresentanza politica. Mentre Macron – è il suo mestiere, d’altronde – crede ancora nella necessità di organizzare “verticalmente” l’elaborazione delle decisioni, Houellebecq si mostra estremamente fiducioso nello strumento del referendum popolare. «Sono favorevole al referendum di iniziativa popolare come unico mezzo per cambiare le leggi… Nel chiedere l’opinione di tutti c’è qualcosa di abbastanza sano. Questo non può che rafforzare la sensazione di appartenere a una comunità…»
È davvero così? I referendum sono la risposta al bisogno popolare di esprimersi, ora che c’è una crisi evidente dei “corpi intermedi” che tocca tutta l’Europa? Il referendum è la forma di salvaguardia della democrazia, o non piuttosto l’abuso di svuotamento della democrazia, con l’introduzione surrettizia di un rapporto eccessivamente semplificato tra cittadini e questioni complesse, tra popolo e leader?
Dopo il voto in Spagna del 26 giugno, nessun partito ha i numeri per una maggioranza di governo. Sembra riproporsi lo scenario di dicembre, lo stallo, per superare il quale, dopo estenuanti trattative e veti incrociati, si è rivotato pochi giorni fa. Per noi, in Italia, non proprio una sorpresa: dopo il voto alle politiche del febbraio 2013, non si trovò un modo di governare per la tripartizione del voto tra l’alleanza Pd-Sel guidata da Bersani, il centro-destra di Berlusconi e la solida affermazione del Movimento 5Stelle. Probabilmente, la verità è che l’unica legge elettorale buona è quella del giorno dopo le elezioni. Spagna e Italia, comunque, non sono le uniche nazioni dove il voto politico non dà mandato chiaro per la formazione di governi stabili con larghe maggioranze: in Belgio, nel 2010, ci fu una crisi lunga 589 giorni – un record del mondo – prima che l’incarico del re per un governo riuscisse a andare a buon fine.
La fine della contrapposizione fra destra e sinistra, variamente declinata a seconda delle nazioni, e l’emergere di nuovi partiti e movimenti organizzati è il vero fenomeno politico europeo che manda in crisi leggi elettorali e forme di rappresentanza, come le conoscevamo dal dopoguerra. Così è accaduto recentemente alle elezioni presidenziali in Austria, che ha visto la fine della divisione e del compromesso fra popolari e socialisti, per l’emergere del nuovo partito, il Fpo di Hofer battuto per un soffio, solo trentamila voti, dal verde Van der Bellen su cui erano confluiti tutti gli altri voti; così è in Gran Bretagna, con l’emergere dell’Ukip di Farage; così è in Francia, con la forza del Font National di Marine Le Pen; così è in Germania con l’avanzata dell’Allianz für Deutschland.
Forse è interessante notare, tra le righe, che sembra essersi chiusa quella fase in cui l’emergere in Europa di nuovi partiti era legato alle questioni ecologiche – i Grunen di Joshka Fischer, per dirne uno, e probabilmente il più significativo e incisivo – come se la sensibilità europea si fosse profondamente modificata, focalizzata altrove, nel corso di questi ultimi anni. E anche la capacità dei governi di dare alcune risposte alle questioni del nucleare e della salvaguardia del territorio, ma non alle “nuove emergenze”, immigrazione, terrorismo, crisi finanziaria.
Mentre la distribuzione elettorale fra destra e sinistra in Europa si è imballata, sembra invece rafforzarsi la bontà dello strumento referendario. E non vale solo per l’ultimo, quello nel Regno unito sulla Brexit, ancora carico delle incertezze che provocherà. In Svizzera, che peraltro vi fa abitualmente ricorso, l’ultimo si è tenuto ai primi di giugno, se ritenessero accettabile il varo di un “reddito minimo garantito”, con una schiacciante maggioranza per il No. In Islanda, nel marzo 2010, dopo il fallimento una dietro l’altra delle banche islandesi per via di speculazioni ardite, il 97 percento dei trecentomila abitanti dell’isola votarono No alla restituzione del credito alle banche inglesi e olandesi, soprattutto. In Grecia, durante il braccio di ferro tra Tsipras e Varoufakis, da un alto, e Merkel e Schauble dall’altro, il leader di Syriza chiamò i greci a un referendum sull’accettare o meno i pianti di rientro dal debito proposto dai tedeschi, e ci fu uno straordinario successo del No, dell’Oxi.
La storia dei referendum In Italia – che peraltro scelse proprio così la forma repubblicana, esiliando la monarchia – è abbastanza complessa. La stagione referendaria più coinvolgente e esaltante è quella degli anni Settanta, con le consultazioni sul divorzio e sull’aborto. Nel 1991, il referendum promosso da Mario Segni abolì il sistema di preferenze alla Camera, che fu la prima evidente indicazione elettorale – Craxi aveva invitato a «andare al mare» – contro il sistema dei partiti. Nel 2011, a giugno, una sorprendente e chiara indicazione di voto si espresse a proposito dell’acqua “pubblica”, mentre quest’anno il referendum sulle trivellazioni in mare non ha raggiunto neppure il quorum. Chissà che succederà a ottobre per il referendum costituzionale. Si può, a grandi linee, dire così: quando era forte il sistema dei partiti i referendum avevano una ricaduta di trasformazione degli equilibri politici e della legislazione, e registravano le modifiche intervenute nelle abitudini e negli orientamenti della società. Da quando il sistema della rappresentanza politica è in crisi, i referendum non “segnano” discontinuità e trasformazioni della società, ma segnano invece l’avvento o meno di nuovi leader. Come se non si discutesse delle questioni indicate nei referendum, ma fossero solo un’occasione per incanalare giudizi dell’opinione pubblica costituitisi altrove.
Se è vero che esiste una sorta di esautoramento della democrazia rappresentativa, immaginare un “referendum permanente” (mutuando un po’ l’espressione dalla “rivoluzione permanente” di Trotsky), come sembra piacere a Houellebecq, in nome dell’espressione diretta della volontà dei cittadini non è probabilmente la soluzione migliore. La partecipazione alla vita pubblica non può essere delegata solo a un’espressione di voto – peraltro in una progressiva virtualizzazione, come se questa fosse la panacea delle democrazie dell’occidente, il suo facile “coniglio dal cilindro”.
Senza “istituzioni della cittadinanza” – quello che un tempo significavano la articolazioni sul territorio e i luoghi di lavoro di partiti e sindacati e associazioni – dove conoscenza delle questioni e formazione della coscienza e di un giudizio possono irrobustirsi e prendere senso, le domande acquisiscono connotati vaghi e pure dilatati, come fossero assunti di un aspetto “religioso”, fondamentalista.
Proprio l’acqua in cui naviga a gonfie vele la demagogia.

Nicotera, 28 giugno 2016
pubblicato su “il dubbio”, quotidiano del 29 giugno 2016

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