Mario Gozzini è diventato una legge. Succede, a certi uomini e donne. Tu non dici, la legge 1 dicembre 1970 numero 898, dici la legge Fortuna, quella del divorzio. Tu non dici, la legge 13 maggio 1978 numero 180, dici la legge Basaglia, quella dei manicomi. Tu non dici, la legge 20 febbraio 1958 numero 75, dici la legge Merlin, quella delle case chiuse. Così, è accaduto a Mario Gozzini. Nessuno dice la legge 10 ottobre 1986, numero 663. Tutti dicono la legge Gozzini. Quella del carcere. A me sembra un raro privilegio, quello di legare il proprio nome a una legge. Certo, è successo che qualcuno presentasse o si desse da fare per un legge e poi se ne ritirasse, tanto gli sembrava stravolta dall’intento originario da non volervi accostare più il proprio nome. Ne risulta un effetto curioso: per esempio, il senatore Cirielli presentò una legge in materia di diritto penale, poi la sconfessò e ci votò contro, ma nessuno dice la legge 5 dicembre 2005 numero 251, no, si dice comunemente la ex-Cirielli, a disdoro del senatore, quasi un dispetto. Mario Gozzini, invece, non sconfessò mai la sua legge, anche quando gliela giravano contro, quando lo imputavano di questo o quel delitto, come se fosse stata colpa sua – quando un brigatista uscito per misure alternative non tornava in carcere e si dava latitante, quando uno dei terroristi palestinesi che avevano sequestrato l’Achille Lauro e ucciso il povero Leon Klinghoffer s’era dato alla fuga, ecco, allora lo tiravano in mezzo. Succedeva un caso su cento, 1 a 100, però lo sai com’è la politica, no. Lui fermo.
Per parlare di Mario Gozzini, di uno spirito cattolico inquieto e fermo, bisogna però parlare di un pezzo di storia d’Italia che non è molto conosciuto e studiato, e che pure ha avuto una importanza straordinaria, proprio nel fare questo paese così com’è, o almeno così com’era stato fino a non molto tempo fa, anche se sembra passato un secolo. Perché bisogna parlare di quella storia di cattolici che prima della caduta del fascismo e nell’immediato dopoguerra pensavano e si interrogavano su quale paese volessero costruire, animati com’erano da spirito cristiano, impegnati nell’agire sociale, e pure coscienti che la politica, l’ordinamento statuale, le leggi scritte non fossero tutto quel che si potesse fare, e fossero anche poca cosa se non erano pervase dalla passione per l’umano, dal riscatto degli “ultimi”. Mario Gozzini era uno di questi, uno che a un congresso della Democrazia cristiana – quando era la Balena bianca, eh, non quando stava scomparendo – chiese di parlare e disse: «Io sono uno di quei cattolici che non si riconoscono nella Democrazia cristiana». Apriti cielo, e è proprio il caso di dirlo. Perché qui si tratta proprio dei confini tra il cielo e la terra. Confini politici.
La Democrazia cristiana non si preoccupava di educare l’elettorato, non faceva attività pedagogica su valori e identità per costruire l’uomo nuovo, che era invece il costante lavorio dei comunisti, nelle sezioni, nelle case del popolo: per i democristiani, c’era già la chiesa che provvedeva a tutto. Così, gruppi di giovani cattolici che agivano in autonomia, partendo proprio da un’esigenza di rinnovamento religioso e sociale che il partito pareva trascurare, negli anni Cinquanta avevano praterie davanti per un lavoro culturale. È tutto un tessere rete, un progettare riviste, quel periodo dell’immediato dopoguerra, a Firenze, dove Gozzini s’è formato, a Milano, a Genova, oppure, a partecipare a altre già rodate e magari uscirne. É tutto un interrogarsi e prendere le distanze dal misticismo, tutto un distinguere tra esistenzialismo ateo e religioso, tutto un ragionare sul concetto di civiltà cristiana. Era tutto un mondo quello, di forte impronta antifascista, che guardava al movimento operaio, al Partito comunista. Era tutto un mondo che De Gasperi tendeva a esorcizzare, agli occhi di Pio XII, come “laburismo cristiano”. Era, in sostanza, il confronto tra cristianesimo e marxismo. Parliamo di uomini con uno spessore culturale forte, che non si limitavano a annusare i venti della nouvelle teologie che veniva d’Oltralpe. Parliamo di Dossetti, che ebbe un peso enorme nella Costituente, di Meucci, di Pampaloni, di Balducci, di Lazzati, li chiamavano – gli altri democristiani, eh – “i professorini”; ma parliamo anche di La Pira, che continuava a progettare convegni per la pace, e percorreva il filantropismo, il solidarismo, l’ottimismo provvidenziale, e anche il realismo politico (di Firenze, fu sindaco), come d’altronde i “politici puri”, i Fanfani, i Pistelli. Questa è la Firenze di quegli anni, in cui matura il giovane cattolico Gozzini. E un discorso a parte meriterebbe il rapporto tra Gozzini e don Lorenzo Milani, due modi diversi di portare avanti la volontà riformatrice del cristianesimo: più filosofico quello di Gozzini, più colloquiale, senza mediazioni culturali, quello di don Milani. E a Milano, intanto c’erano Primo Mazzolari e David Maria Turoldo con la Corsia dei Servi, preti di grande impegno sociale.
Ora, uno se pensa a quei due grandi blocchi monolitici che erano la Democrazia cristiana e il Partito comunista – soprattutto dopo il 18 aprile del 1948 – immagina che ci fosse un abisso di distanza. Eppure, c’erano uomini, da una parte e dell’altra, che cercavano la “prova del dialogo”. Tra i comunisti, Franco Rodano, Valentino Gerratana, Lucio Lombardo Radice, Luciano Gruppi, lo stesso Ingrao. Era tutto un fare e disfare, con le gerarchie ecclesiastiche che tenevano strette le briglie (ma c’era sempre un padre spirituale che incitava a insistere) e le gerarchie comuniste che guardavano in tralice (finché non fu Togliatti stesso a promuovere i raccordi). Poi, ci furono aperture, da una parte e dall’altra, gli anni Sessanta con il loro vento di rinnovamento, fino all’impegno diretto – Gozzini per due volte rifiutò di essere eletto come indipendente nelle liste comuniste, gli sembrava non fosse tagliato – che si concretizzò poi con l’elezione a senatore nel 1976 (vennero anche eletti, tra gli altri, Pratesi e La Valle). Chiese di interessarsi di giustizia, perché non ne sapeva nulla. Per spirito di servizio, presumo. Quando dirlo, significava davvero qualcosa.
È da questo spirito di servizio che nasce la legge Gozzini. La legge Gozzini non era «l’umanizzazione del carcere» – un concetto orrendo –, non faceva che dare valore e attuazione all’articolo 27 della Costituzione, laddove dice che la pena è rieducativa, anzi di preciso recita così: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». E così, la Gozzini, che fu votata da tutto il parlamento meno quelle teste di pietra del Msi, che allora volevano l’introduzione della pena di morte (la volevano sempre, per la verità), intervenne su permessi premio, l’affidamento al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semilibertà, la libertà condizionale, la liberazione anticipata. Insomma, allentò la presa. Erano tempi durissimi per i carceri, con una massa di detenuti politici (che tali non erano, tali non furono mai considerati) e di detenuti politicizzatisi, attraverso le rivolte degli anni Sessanta e Settanta e il lavoro della sinistra extraparlamentare prima e dei Nap dopo, e condizioni di vita sempre più restrittive, a fronte di una popolazione detenuta che aumentava. Si evadeva, si progettavano rivolte, si sparava per le strade. Persino agli architetti delle carceri sparavano. Eppure, invece di puntare a una maggiore militarizzazione e con una opinione pubblica sgomenta e disponibile forse a un discorso ancora più repressivo, Gozzini riuscì a ribaltare il punto di vista. Bisognava allentare la presa, non c’era altro modo per uscire da quella spirale viziosa, più repressione più violenza più repressione. Gozzini, è vero, introdusse l’articolo 41 bis, come contrappeso, ma doveva essere solo limitatissimo temporaneamente per tenere in isolamento detenuti dopo le rivolte – e forse, chissà, forse voleva tutelarli e evitare i massacri tipo dopo le rivolte di Pianosa e di Trani, quando la vita di un detenuto non valeva un soldo bucato, e ne fecero carne di porco. Fu nel 1992 che il 41 bis diventò da temporaneo a illimitato, subito dopo la strage di Capaci. E questa è un’altra storia, o forse no.
E mica fu solo uomo di leggi Gozzini: quando il 25 agosto del 1987 scoppiò la rivolta nel carcere di Porto Azzurro, guidata dal terrorista nero Mario Tuti, e presero in ostaggio 36 persone e si asserragliarono, e per otto lunghi giorni l’Italia restò con il fiato sospeso a seguire le sorti dei sequestrati, ci andò Gozzini, tra gli altri, a trattare. Stiamo parlando di ergastolani, di uomini che non avevano niente da perdere, di uomini che avevano ucciso anche in carcere altri detenuti. E andò bene, la trattativa. Chi altri poteva andare, se non Gozzini?
Quando morì, nel 1999, al funerale forse il miglior epitaffio lo fece un suo avversario politico, il senatore Caccavale di Forza Italia. Disse: «Da anni non si registrano più rivolte violente».
Nicotera, 21 aprile 2016
pubblicato su «il dubbio», quotidiano