Presidenziali Usa. E se non vince nessuno?

Donald-TrumpNessuno al mondo può immaginare che un partito remi contro un proprio candidato alle elezioni, eppure è esattamente quello che sta accadendo tra i Repubblicani e Donald Trump. C’è una larga fetta di Partito repubblicano che considera l’avanzata irresistibile di Trump “The Donald” alla stregua di un’apocalisse. Il carattere bizzarro, fuori le regole, in sostanza: ingovernabile, con posizioni “scorrette” e non solo contro le donne, gli immigrati o in politica estera, ma contro le banche, gli affaristi, il sistema produttivo, che Trump esterna – e che d’altronde gli hanno fatto sinora guadagnare simpatie e appoggio popolari – sono avvertiti, per dire: secca riduzione delle spese militari Nato, come un “pericolo rosso” per il sistema repubblicano.
Sinora, quella larga fetta di partito che non digerisce Trump ha scatenato una vera e propria guerriglia elettorale, facendo pressione su ogni delegato per stoppare l’inarrestabile Donald. Ancora nominalmente in corsa ci sono Ted Cruz, senatore del Texas e John Kasich, governatore dell’Ohio. David McIntosh, che è presidente dell’ultraconservatore Club for Growth, e che ha speso milioni di dollari in campagne pubblicitarie contro Trump, dice che c’è ancora tempo per una strategia vincente. Come si sono messe le cose, è abbastanza improbabile che Cruz riesca a colmare la distanza da Trump, anche se dopo il Wisconsin e il Colorado qualche chance è aumentata, ma la chiave di volta sarebbe nel riuscire a impedire che Trump arrivi alla Convention di luglio con i 1237 delegati necessari. Se nessuno a luglio ha i numeri, allora tutto si rimanda alla Convention e ai giochi di partito.
Se questo sforzo, che durerà presumibilmente fino all’estate, dovesse però risultare vano, c’è un’altra, ultima carta da giocare: un candidato indipendente. La vera scommessa sarebbe puntare su un terzo nome. Per dire, Mitt Romney, che è stato il runner repubblicano nelle elezioni del 2012, ha detto che lui sarebbe disposto a spendersi su qualcuno che non sia Hillary Clinton o Donald Trump. C’è un pugno di nomi che sono circolati nelle segrete stanze repubblicane, come possibili “terzi candidati” su cui puntare: si è parlato di Tom Coburn, che è stato senatore dell’Oklahoma, e di Rick Perry, che è stato governatore del Texas. Entrambi però hanno lasciato intendere che non sono in lizza. Si è parlato di Michael Bloomberg, che è stato sindaco a New York, apprezzato e stimato, ma la cosa per ora sembra arenata.
Gli americani lo chiamano Scenario 1824, e è una cosa che manda in sollucchero esperti di costituzione, di storia e di pratiche elettorali, ma in realtà è un incubo. Succede quando nessuno dei candidati ottiene un numero sufficiente di delegati per vincere le elezioni presidenziali: il numero magico è 270. C’è un emendamento che detta le regole per un caso simile, è il XII. A quel punto, la scelta del presidente è decisa attraverso un ballottaggio della Camera dei Rappresentanti. Insomma, tutto si sposta in un gioco di manovre politiche, di accordi, di transazioni tra interessi e promesse di lobby.
La definizione Scenario 1824 deriva dalle elezioni presidenziali di quell’anno, quando Andrew Jackson ottenne la maggioranza relativa, ma non quella assoluta, dei voti elettorali espressi. In realtà i candidati erano quattro: John Quincy Adams, Henry Clay, Andrew Jackson e William H. Crawford. Ora, il XII Emendamento prevede che la scelta della Camera dei Rappresentanti si limiti a prendere in considerazione solo tre nomi; Clay era arrivato quarto, e perciò fu escluso. Però Clay era lo speaker della Camera, e aveva una notevole influenza sui delegati. Così, dirottò i suoi voti su Adams, che venne eletto. Clay divenne Segretario di Stato, e questo fece gridare allo scandalo, al “corrupt bargain” – una transazione sporca, un malaffare. I Jacksoniani ci fecero una gran battaglia contro, ma Adams concluse il suo mandato. Alle elezioni successive, nel 1828, vinse Andrew Jackson e la Storia, quanto meno quella elettorale americana, si rimise a posto: non è mai più successo. Però, potrebbe di nuovo.
Perché accada di nuovo, cioè perché il voto elettorale finisca in impasse e occorra rivolgersi alla Camera dei Rappresentanti ci vuole un miracolo, ovvero un terzo candidato.
Insomma, sembra davvero un puzzle, un incubo. Si poteva immaginare che i repubblicani insofferenti di Trump avrebbero finito con il sostenere la Clinton, magari come ultima ratio e di nascosto. La Clinton, che è percepita da una parte dell’elettorato democratico come ultramoderata, poteva essere quel candidato “di centro” su cui far convergere Democratici e Repubblicani – pochi lo ricordano, ma all’inizio delle cose c’era un partito unito che si chiamava proprio così: Democratico-Repubblicano. Ma le cose sono più complesse: per dire, Susan Sarandon, la magnifica e straordinaria attrice, che è un’attivista a tutto tondo di battaglie progressiste e sostiene Sanders in vista delle decisive primarie dello Stato di New York, ha detto un’enormità in un’intervista, tipo che piuttosto che votare la Clinton preferirebbe appoggiare Trump. E per quel che riferiscono i sondaggi non è una bizzarria, ma una tendenza. Perciò, un terzo candidato potrebbe trovare sponda anche nel campo democratico, impedendo così ai due probabili runner, Clinton e Trump, di raggiungere la mitica soglia del 270 voti elettorali. A quel punto si va alla Camera dei Rappresentanti. Scenario 2016.
Solo che, come dice un influente repubblicano, «The big question is, who’s the candidate?», già, chi è il terzo nome?

Nicotera, 11 aprile 2016

foto:cruxnow.com

pubblicato su: il dubbio – quotidiano, 12 aprile 2016

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