Tra le vittime degli attentati di Parigi, anche se i loro corpi non sono stati ancora identificati, ci sono gli intellettuali europei. È abbastanza antipatico citare nomi e virgolettati, anche perché lungo sarebbe l’elenco. Diciamo allora che per lo più, tranne davvero qualche solitaria perplessità, a destra e a sinistra, gli intellettuali europei hanno fatto presto a indossare l’elmetto di guerra. Un coro unanime. Di ragionamenti tattici, disegni di alleanze, forze da mandare in campo, armi specifiche da usare e quali da evitare, scenari geopolitici dell’immediato e del futuro ravvicinato, insomma un vero Stato maggiore di guerra, benché ancora senza mostrine. La coscienza critica dell’Europa, quella che incalza sempre i propri governi e gli altrui, a volte persino pretestuosamente, sempre con dovizia di maiuscole, l’Altro, i Diritti, la Libertà eccetera, erede dell’Illuminismo e dell’Idealismo – non va messo in conto la tradizione marxista, che è dissipata e fuori gioco da tempo – si è presto arruolata, gettando il proprio ardito cuore oltre il reticolato. È singolare e unica questa aderenza del pensiero europeo alla volontà di guerra: non successe per la Serbia, non successe per l’Iraq e l’Afghanistan, non successe neppure dopo gli attentati dell’11 settembre. A dirla con generosità, sembra soprattutto la prova di uno smarrimento: gli intellettuali europei non hanno la più pallida idea di cosa stia accadendo, di cosa sia la jihad, di cosa significhi lo Stato islamico e dei sommovimenti e delle fratture e delle rivalità all’interno del mondo arabo e musulmano. Non hanno, soprattutto, la più pallida idea di cosa accada nelle loro banlieu, nelle periferie di casa loro. La cassetta degli attrezzi di cui dispongono – l’eredità dei Lumi eccetera eccetera – sembra inservibile. L’unica metafora, diciamo così, che sinora è stata prodotta, l’unico immaginario, l’unica contronarrazione è quella della guerra al nazismo – e ce ne sarebbe di cose qui da raccontare, a proposito della cultura europea e del nazismo –, l’anti-fascismo, cioè uno strumento concettuale politico da pieno Novecento. Quello da cui loro stessi hanno preso commiato da tempo. Sorprendentemente, gli intellettuali europei fanno eco alle voci dei loro politici. Però, che Hollande indossi la tempra del guerriero crociato magari ci sta: è il suo mestiere. Diventa bizzarro che siano i politici a incarnare perplessità, a suggerire le complessità e i grandi scenari della storia, la prudenza e la misura. Come se le parti si fossero rovesciate. Giusto per dare un esempio dello smarrimento degli intellettuali, ma anche della generosità, Julia Kristeva, che è un’icona della cultura europea, per biografia e per bibliografia, dice che per far fronte al fondamentalismo crescente tra i giovani delle banlieue, occorre lasciar perdere l’eredità della Ragione e riscoprire piuttosto la Spiritualità: così a un islam che avanza e conquista i cuori degli adolescenti parigini di origine musulmana si possono contrapporre le altre religioni monoteiste, il cattolicesimo, l’ebraismo. A me suona un po’ come le prime sperimentazioni contro la tossicodipendenza da cocaina, quando i medici, per mitigarne gli effetti, suggerirono di usare l’eroina, la morfina. Si sa come è andata.
Per trovare una voce dissonante, bisogna arrivare in Israele. Da Amos Oz. Oz ha le spalle larghe. Le spalle di chi si ostina a dichiarare che la guerra a oltranza nei Territori non serve a nulla, in un paese dove dirlo equivale a marchiarsi di infamia, di tradimento, di viltà. Oz è un “esperto” di queste cose, di bombe nei ristoranti e negli autobus, di razzi sulle case, di figli che ti muoiono, di truppe e civili che si comportano da invasori. Lo scrittore israeliano pensa che una via d’uscita potrebbe essere un grande Piano Marshall per il Medio oriente. Investimenti, infrastrutture, ospedali, scuole, lavoro, case, salari. Un futuro quotidiano. Un futuro anteriore. Se ne può discutere, ma oltre che uno smarcamento, sembra un’idea. La volontà disperata di produrre idee di speranza. Ne ho trovato un’assonanza con le parole di monsignor Bernardito Auza, Osservatore permanente della Santa Sede presso l’ONU. Il 18 novembre scorso a New York, monsignor Auza ha dichiarato che «il bilancio totale per le operazioni di mantenimento della pace, per il periodo dal primo luglio 2015 e il giugno 2016, approvato lo scorso giugno dall’Assemblea generale, è pari a otto miliardi e duecento milioni di dollari». Cioè, le Nazioni unite, noi tutti, abbiamo speso quest’anno otto miliardi e duecento milioni di dollari per “mantenere la pace”, cioè per impegnarci in scenari di guerra. Un esborso enorme, se paragonato ai costi di gestione di alcuni paesi meno sviluppati. «Tali cifre – ha detto l’osservatore vaticano – sono un appello indiretto contro chi ancora si ostina a considerare sviluppo, pace, sicurezza e diritti umani come attività separate». Insomma, avremmo potuto spendere tutti quei soldi, invece che per la guerra per fare strade e ospedali. Sviluppo e pace, sicurezza e diritti, camminano insieme. Sembra un’idea banale, ma a quanto pare ce ne vuole perché entri nelle zucche.
La Regola non bollata di san Francesco al capitolo XVI, «Di coloro che vanno tra i Saraceni e gli altri infedeli», recita: «I frati che vanno tra gli infedeli possono vivere e comportarsi con loro, spiritualmente, in due modi. Un modo è che non suscitino liti o controversie, ma siano soggetti, per amore di Dio, a ogni umana creatura, e confessino di essere cristiani». Soggetti a ogni umana creatura, persino a un Saracino, benché feroce. Come è abbastanza noto, Francesco, il santo dico, non il papa, andò alle Crociate. È il 1219, nel pieno furore della Quinta Crociata. Francesco, partito in estate da Ancona, arrivò a settembre con dodici confratelli, come fossero dodici apostoli, nel Campo dei Crociati, attendati a Damietta, in Egitto; non per benedirli e incitarli – si racconta, anzi, che predicasse contro la Crociata –, ma perché voleva tentare un dialogo con il nemico. Non è la prima volta che Francesco tenta un dialogo con l’islam, ma per una cosa o l’altra le due volte precedenti è andata male. Anche stavolta trova degli ostacoli: il delegato del papa non vuole a nessun costo lasciarlo passare – sarebbe un segno di debolezza, come riconoscere dignità di interlocuzione a un barbaro. Com’è come non è, Francesco attraversa il Campo dei Crociati e arriva dal Soldano, Malik al-Kamil. Il Sultano invitò teologi e saggi musulmani per discutere delle due religioni, e parlarono del sacro e dei tanti nomi di Dio. Malik al-Kamil chiese a Francesco – uirum simplicem et illitteratum, dilectum deo et hominibus, uomo semplice e senza cultura, diletto a Dio e agli uomini – di rimanere. Non era una buona idea. Benché Francesco avesse scongiurato il delegato del papa di smettere la guerra e di accettare una trattativa di pace avviata dal Sultano, la Crociata continuò. Fino alla sconfitta.
Le parole di monsignor Bernardito Auza hanno fatto da eco al discorso tenuto da papa Francesco alle Nazioni unite il 25 settembre: «La guerra è la negazione di tutti i diritti. Se si vuole un autentico sviluppo umano integrale per tutti, occorre proseguire senza stancarsi nell’impegno di evitare la guerra tra le nazioni e tra i popoli. […] Nelle guerre e nei conflitti ci sono persone, nostri fratelli e sorelle, uomini e donne, giovani e anziani, bambini e bambine che piangono, soffrono e muoiono. Esseri umani che diventano materiale di scarto mentre non si fa altro che enumerare problemi, strategie e discussioni». Chissà che Francesco, il papa dico, non il santo, non possa attraversare il Campo dei Crociati e andar tra i Saraceni, a incontrare il Gran Califfo al Baghdadi. Sarebbe una singolare ironia della Storia, nella ricorrenza dei nomi e nella ricorrenza di scenari di guerra, come se il Mediterraneo, il Medio oriente non fossero mai cambiati, o non potessero mai cambiare, eppure sì. Forse è un’idea balzana, simplicem et illitteratam. Però, chissà, magari potrebbe convincere la Kristeva. Ci serve un miracolo adesso, cos’altro? Ci servono santi sul campo, altro che fanti.
Nicotera, 21 novembre 2015