Cento giorni, che la Salerno-Reggio Calabria è chiusa

viadotto_italiaCi vollero cento giorni a Napoleone per rilanciare la sfida alle potenze d’Europa, partendo dall’Elba, dove l’avevano confinato, e, dopo aver messo assieme un esercito, affrontare il destino a Waterloo. Cento giorni in cui mentre si squagliava come cera molle la restaurazione dei Borbone, l’entusiasmo sembrava tornare nei vecchi soldati della Grande Armée che avevano gloriosamente combattuto dall’Alpe alle Piramidi, nei caporali, che lustravano i cavalli e gli stivali, nei marescialli che rispolveravano vecchi pastrani e cappelli coi pennacchi. Lo chiamarono il Volo dell’Aquila, quel balzo da un’isola nel Mar Tirreno fino a quella maledetta pianura belga, intrisa di pioggia e d’acqua. Tremò l’Europa, in quei cento giorni.
Cento giorni sono passati da quando Adrian Miholca, operaio rumeno di venticinque anni, volò con il suo trattorino mentre stava lavorando a smantellare un pezzo della Salerno-Reggio Calabria, il viadotto Italia. Tratto di autostrada chiuso – la Procura di Castrovillari apre un’inchiesta sulla morte di Miholca e ordina di disporre interventi atti a capire la stabilità e la sicurezza della struttura –, traffico dirottato su stradine. Addio Calabria.
Ogni volta che l’Anas fa un comunicato, in cui puntualizza, precisa, rinnova una scadenza già scaduta, non manca mai di gonfiare il petto per quella che è considerata una grande opera ingegneristica di cui tutti dovremmo andare fieri, e ricordare che è il viadotto più alto d’Italia e il secondo d’Europa. Volete sapere qual è il primo? Quello di Millau, in Francia. Iniziarono i lavori nel 2001, i francesi, e le automobili cominciarono a circolare nel 2004. Tre anni. Tre cazzo di anni. Il “secondo viadotto” più alto d’Europa, onore e vanto dell’ingegneristica dell’Anas, lo iniziarono nel 1964. Più di cinquant’anni fa. E ancora stiamo qui a parlare di lavori. E di morti.
Ai calabresi non cambia nulla, sapete. Noi non abbiamo trenini regionali, è rimasta qualche littorina che va a diesel, non abbiamo treni che portino da qualche parte lontano da qui, e neppure arrivano se è per quello, non sappiamo nulla della concorrenza fra Ferrovie dello Stato e Italo, non abbiamo tratte aeree che bastino e costino poco – Alitalia, se prenoti un giorno per l’altro per Milano ti chiede pure trecento euro, che il prezzo lo fa all’ultimo momento –, non abbiamo sufficienti strade interne e provinciali. E c’è una statale che ogni volta che la imbocchi ti fai la croce perché non sai se arriverai dove hai pensato di arrivare: ti chiamano ogni cinque minuti, gli amici, i parenti, la mamma, per sapere a che punto sei, per sapere se rispondi, se sei ancora vivo.
Ai calabresi non cambia nulla, sapete. Ci sono ancora zone dove la televisione nazionale arriva e non arriva, oppure mentre ti guardi una fiction se ne va la voce e tu cerchi a Peppe, il muto del paese, perché legga le labbra e dica che cazzo sta succedendo, oppure pigi su quel maledetto tasto del telecomando per i non udenti, che c’hanno i sottotitoli. Ci sono ancora zone dove i cellulari non prendono. Dice che è la Tim, che ha dei guai, e allora vai in Vodafone, però dice che forse 3 è meglio e allora vai in 3, poi pensi che se hai tre cellulari è la cosa migliore, almeno mamma ti può chiamare e stare sicura. Una volta mi hanno mandato un pacco da Bologna, per il mio compleanno, e io l’ho seguito su internet il percorso, e da Bologna è andato a Catanzaro, che l’ha rimandato a Roma, che poi l’ha spedito a Lamezia, e a Lamezia qualcuno deve aver pensato che forse era arrivato il tempo di portarmelo. Non subito, eh. Era un maglione per l’inverno. E intanto era arrivata primavera. L’ho conservato, e c’ho dovuto mettere la naftalina perché se lo stavano mangiando le tarme. E internet, con le meraviglie dei 100 mega in download, ah, che dire. Certe volte penso che se tenessi i piccioni viaggiatori – se non fosse che cacano dappertutto – farei prima a mandarne uno che spedire una mail con allegato.
Ai calabresi non cambia nulla, sapete. Una volta un mio amico si mise di buzzo buono e calcolò le tempistiche. Quanto tempo ci voleva in Calabria per fare una cosa e quanto a Roma. E dico Roma, eh, mica la Svizzera. Bene, dopo mesi di incroci di dati e sperimentazioni, mi disse che il risultato era di cinque giorni. Vuoi un certificato? Cinque giorni di differenza. Devi disbrigare una pratica? Cinque giorni di differenza. Vuoi una medicina che non si trova in farmacia? Cinque giorni di differenza. Cerchi un pezzo di ricambio per la tua automobile? Cinque giorni di differenza. La Calabria c’ha cinque giorni di differenza col resto del mondo. Viviamo in un tempo parallelo, in un mondo parallelo. Cosa volete che ci cambi se non abbiamo più l’autostrada?
Gli operatori turistici sono preoccupati, registrano un calo delle prenotazioni, qualcuno quantifica in un venti per cento, parlano di posti di lavoro che si perdono. Beh, non è che prima arrivassero come i fulmini, i turisti, e se per quello pure i calabresi che tornavano. Ore di autostrada, tra corsie uniche e rallentamenti per qualche lavoro, che ci potevi arrivare a Waterloo, per dire. Pure altri operatori economici sono preoccupati, che so, i produttori agricoli, che immaginano un aumento dei costi per via del tempo che ci mettono i Tir a portare le cose dove devono. Potrebbero raccoglierli un po’ prima, i cocomeri, e farli maturare dentro i Tir, no? «La Calabria è in ginocchio», urla Federturismo, o Coldiretti. Scusate, prima, la Calabria era in piedi? E quando mai l’avete vista in piedi?
Tra Laino Borgo e Mormanno – il tratto dell’autostrada ora chiuso e dove ti mandano per campi – qualcuno sta pensando di organizzare il passaggio con i ciucci. Non sto scherzando. Cioè, tu hai la famiglia, le tue cose in auto e devi andare di là? Bene, la famiglia scende, e sale sui ciucci, tu porti l’auto. È per non stressare le persone, è meglio che si sacrifica solo uno. Come quando vai in discoteca e tutti bevono meno uno, che poi devi portare tutti dietro e devi uscire pulito al palloncino. Così, tua moglie, i figli, la nonna, la suocera, tutti sui ciucci. Che arrivano pure prima, di là. E intanto si prendono un po’ d’aria fresca, si bevono una limonata, si mangiano una cosa. E si guardano il paesaggio: pure il secondo viadotto più alto d’Europa, si possono guardare, che fa proprio impressione, che sembra un dinosauro ferito a morte. C’è un pedaggio, certo. Ma quelle sono zone dove si facevano stazioni di posta, dove Goethe o Stendhal cambiavano i cavalli, il pedaggio è uso antico. Dice che ci stanno pensando. Ai calabresi non manca certo l’ingegno.
Quello che manca è una classe politica dirigente. Sarà che tutti hanno paura di sembrare populisti. Così, se ti metti a urlare che ne abbiamo piene le palle, forse puoi passare per populista, e allora è meglio che si sta zitti. Così, se pensi di organizzare una qualche protesta, che ne abbiamo piene le palle, forse puoi passare per populista. È la paura di passare per populisti, che è proprio una cosa sgradevole e non si porta in società, che impedisce alla nostra classe dirigente, al consiglio regionale, agli amministratori locali, al governatore, ai politici e ai sindacalisti calabresi di battere i pugni, di urlare la nostra rabbia, di organizzare la protesta. Una qualunque cazzo di protesta. È la paura del populismo che ci fotte a noi. Che siamo tutti a modino. Mica come quei volgarotti che stanno al nord.
L’Anas ha detto, dopo che la Procura ha da poco sbloccato i lavori di riparazione sul viadotto, che ci vorranno quaranta giorni, che ci arriveremo per l’estate. Forse a Millau quaranta giorni sono quaranta giorni. Da noi, se il mio amico ha ragione, bisogna moltiplicare quei quaranta giorni per cinque: ce ne vorranno duecento perciò. Sarà pronto per l’estate, certo, ma la prossima.
È curioso come si sposti sempre più a Sud il confine della storia. Cesare supera con le legioni il Rubicone, che sta accanto la via Emilia – il confine della Repubblica –, e dice: Alea iacta est, il dado è tratto. Sul Garigliano, tra il Lazio e la Campania, si combatte una delle più importanti battaglie tra i Borboni e i Mille, per l’unificazione d’Italia. Poi, Cristo si fermò a Ebola. Era ripartito, nel suo cammino, ma s’è fermato di nuovo, a Laino Borgo.
Quando entrò a Gerusalemme, Cristo era su un ciuccio. A Laino Borgo ne troverà un altro.

Nicotera, 10 giugno 2015

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