Dalla Roma di Argan a quella di Alemanno

rutelli_veltroni_alemannno copiaUna volta c’era Petroselli. Forse si dovrebbe dire meglio: una volta c’erano Giulio Carlo Argan, Luigi Petroselli e Ugo Vetere. Perché c’è continuità nei loro mandati come sindaci di Roma e perché disegnano un arco temporale politico segnato dalla fine dell’era dei sindaci democristiani e dall’avvento dei sindaci di sinistra. Argan viene eletto sindaco nel 1976, e Petroselli, capolista per il Pci prende una valanga di voti, superando persino Andreotti. È questa l’onda lunga. Renato Nicolini è il suo assessore alla Cultura e Vetere è il suo assessore al Bilancio. Lo rimane anche quando Petroselli subentra a Argan, nel 1979. E diventa anche vice-sindaco. Anche Nicolini rimane a fare l’assessore alla Cultura. Quando Petroselli scompare improvvisamente, nel 1981, al suo secondo mandato, Vetere diventa sindaco. Durerà fino al 1985. È questo decennio, che ha cambiato Roma.
Non fu solo l’Estate romana; con Antonio Cederna, venne realizzato il progetto per il ripristino dei Fori e dell’area archeologica centrale. Il Campidoglio si riunisce al Foro Repubblicano, e il Colosseo all’area dell’Arco di Costantino e al tempio di Venere e Roma. È in quel periodo che si completa la continuità dell’area archeologica, dal Colosseo al Campidoglio. È in quel periodo che si aprono la Linea A e la linea B della metro. Soprattutto, periferie e borgate “si avvicinano” al centro della città: centinaia di migliaia di cittadini delle borgate ottengono l’allacciamento alla rete idrica e fognaria. Roma diventa a un tempo centro di attrazione mondiale e città senza più la vergogna delle borgate come favelas. È il tempo delle grandi contestazioni sociali e politiche, dei grandi movimenti, con il centro continuamente invaso da manifestazioni e barricate. È anche il tempo dell’attacco del terrorismo.
Ma è sicuramente il periodo in cui Roma ha uno splendore straordinario, in cui si rende conto della sua impareggiabile grande bellezza.
Curiosamente, Argan, che era torinese, Petroselli, che era di Viterbo, e Vetere, che era di Reggio Calabria, non erano romani di nascita. Allora contava davvero poco, la “romanità” la dava il partito, bastava essere comunisti. Soprattutto, benché avessero, per formazione culturale o per ruolo nel partito, una “visibilità”, Argan, Petroselli e Vetere erano ben contenti di essere sindaci di Roma. Guidare e amministrare la città di Roma, e ciascuno dedicò cura e attenzione secondo il proprio inclinamento, bastava e avanzava.
Quand’è che cambiano le cose? Quando “prendere Roma” diventa il trampolino di lancio verso incarichi più ambiziosi, quando ci si rende conto che da Roma si può passare direttamente a governare il paese, l’Italia. È con Rutelli che inizia questo “salto”. È con Veltroni che questo passaggio si rafforza, è con Alemanno che prende la via del piano inclinato. Ciascuno a modo suo, Rutelli incrociando il Giubileo, Veltroni che fa di Roma il luogo di mille “case” – della cultura, del cinema, del jazz e via cantando –, e Alemanno che punta direttamente al “familismo amorale”, reclutando vecchi sodali di destra e loro parenti, amanti, amichetti, facendo, o perfezionando, le municipalizzate come la Grande Vacca da mungere. È in quest’arco temporale che nasce il “sistema Roma”: la sindacatura di Roma come balzo per coltivare le proprie ambizioni politiche verso la presidenza del Consiglio. Per realizzare questo “sogno” ci vuole una marea di soldi, ci vuole una “macchina di soldi”, che sia in grado di stabilizzare consenso, voti, visibilità. Che coinvolga e taciti, nella spartizione, anche l’opposizione («So’ quattro lotti, uno va all’opposizione», dalle intercettazioni di Mafia Capitale). Dirigenti centrali della macchina amministrativa, politici di quartiere e di circoscrizione, tutta la macchina politica – una volta per l’uno, una volta per l’altro – deve essere in grado di macinare denaro per costruirsi consenso sociale.
È in questo arco temporale che Roma diventa “ladrona”, cioè in grado di far pesare la sua impareggiabile grande bellezza, la sua eccezionalità verso il governo centrale e di “costruire” un bilancio pubblico che non avrà alcuna regola. Che verrà sanato, di anno in anno, di sindacatura in sindacatura dalle elargizioni “generose” dello Stato.
Badate, non sto mica dicendo che Rutelli, Veltroni e Alemanno abbiano rubato. Non è il mio mestiere, questo. Sto dicendo che questo “sistema” è arrivato al punto di autonomizzarsi. È arrivato al punto di ritrovarsi con una montagna di denaro, con una continua riproduzione di denaro, e di non avere più il “modo politico” di spenderlo. L’ambizione politica di spenderlo. Rutelli si è bruciato con Berlusconi, come Veltroni e come, per altro verso, Alemanno. Il “progetto” di fare di Roma il trampolino verso il governo del paese è fallito in tutti e tre i casi. Ma la macchina, il “sistema” è rimasto e ha continuato a funzionare.
È questo “sistema” che spiega la formazione delle cooperative di Buzzi e Carminati, tra le cento altre, e la loro trasversalità tra le giunte di centrosinistra e quelle di centrodestra. È questo “sistema” che spiega la versatilità dei dirigenti della macchina amministrativa, ora al servizio dell’uno ora al servizio dell’altro, fino a essere al servizio di se stessi. È questo sistema il “burattinaio”, non Buzzi e Carminati. Buzzi e Carminati sono il bancomat, lo sportello a cui attingono tutti. A piene mani. Soprattutto quando la macchina gira a vuoto. Quando la macchina deve solo mangiare per essere munta. Ma non sono la Banca centrale. Non sono loro i “burattinai”, benché siano convinti che «l’avemo tutti in mano» e che «con questo se magnamo tutta Roma». Non sono Buzzi e Carminati a stampare moneta. Sono “impiegati allo sportello del denaro pubblico”, distributori di mazzette. Arubbeno, pure loro. Come l’artri. Si sa, il popolo rubba.
Più soldi arrivano dal governo centrale, che certo non può far fallire Roma, e si inventa qualsiasi cosa per certificare bilanci che un ragioniere appena diplomato rimanderebbe indietro, e meno si investe sulla città. Il degrado della città – le buche, l’abbandono delle periferie, la coatteria diffusa, l’arroganza e la cialtroneria ormai caratteri sociali – è direttamente proporzionale all’afflusso di denaro: più soldi arrivano – per i profughi, per i rom, per il verde, per “il decoro” – e più soldi vengono ingoiati direttamente dalla macchina, lasciando briciole per l’amministrazione e la cura di Roma. Persino ogni “emergenza” – la neve, e viene da ridere solo già a pronunciarla – diventa occasione di far girare moneta. Manco fosse arrivato il tornado a New Orleans. L’impareggiabile grande bellezza di Roma può essere vista solo all’alba, in assenza d’umanità, quando non c’è nessuno, oppure dall’alto delle magnifiche terrazze romane, lontano da quel che succede in suburra, proprio come nei colori della fotografia di Bigazzi per il film di Sorrentino.
Roma ha goduto della sua straordinaria eccezionalità, della sua lunga onda di cambiamento, e a un certo punto il “sistema” si dev’essere convinto che la città bastasse da sé, che non fosse più necessario curarla, starci dietro, manutenerla. S’è messa a galleggiare su quella montagna di denaro pubblico che continuamente si riproduceva, come per miracolo. Manco fosse la neve – ancora – d’agosto.
L’impareggiabile inchiesta di Pignatone & co. della procura rovescia questo dato di fatto. I “burattini” diventano i mafiosi in grado di condizionare la politica e l’amministrazione della città, dentro la quale ci sono dei corrotti. Arrestati gli uni e gli altri, Roma tornerà sana. “Politicamente” – e questa è un’inchiesta tutta “politica” – sembra il ragionamento dei Cinquestelle: cambiamo gli uomini e cambia il sistema. Mettiamo quelli onesti e poi cambiano le cose. Non è così. È da Tangentopoli che si sente sta solfa. E poi ci siamo ritrovati con Fiorito-Batman. Di uomini ne abbiamo cambiati, e il sistema si è riprodotto. Gli uomini non reggono alla forza del sistema. Vaglialo a spiegare a Marino, che è tutto contento perché Pignatone sta facendo il lavoro per lui.
Cosa voglia davvero Pignatone, o chi per lui – intanto, avere la città “sotto schiaffo” non è un potere da poco –, non è forse importante. Quello che ci si dovrebbe chiedere, per chi ama l’eccezionalità di Roma, per chi crede sia davvero in grado di riprodursi autonomamente, di poter bastare a se stessa, di poter rappresentare un “laboratorio politico” straordinario di democrazia e libertà – lo è stato, può tornare a esserlo e di più –, è come trasformare questa crisi in una opportunità. Non saranno le manette a risolverlo, non saranno i commissariamenti di questo o quel partito, non saranno le intercettazioni – e tutto quel sopracciò moralisteggiante che suscitano.
Sembra d’essere in un passaggio del Risorgimento: Roma non sembra più la capitale, Milano porta ancora i segni della sconfitta, Torino è troppo d’antan. Che si sposti il parlamento a Firenze?

Nicotera, 6 giugno 2015

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