«Quando scese la sera del primo giorno di battaglia, avvenne che in molti luoghi di Parigi, indipendentemente e nello stesso tempo, si sparasse contro gli orologi delle torri. Un testimonio oculare, che deve forse la sua divinazione alla rima, scrisse allora: “Qui le croirait! on dit, qu’irrités contre l’heure / De nouveaux Josués au pied de chaque tour / Tiraient sur les cadrans pour arrêter le jour”. Chi l’avrebbe creduto, che fossero così arrabbiati contro il tempo / Novelli Giosuè, ai piedi di ogni torre / Tiravano sui quadranti per fermare il giorno».
È Walter Benjamin, che parla della Comune di Parigi, 1871, nelle sue Tesi di filosofia della storia. E l’immagine dei comunardi che sparavano contro gli orologi entrò di prepotenza in ogni idea di rivolta.
Certo, signora mia, le rivolte non sono più quelle di una volta. Un po’ come le mezze stagioni. E pure gli orologi, per quello.
Succede che Alfano e Renzi (in una gag da fratelli De Rege) insistono sulla stigmatizzazione dei “barbari di Milano”, i black bloc, che sono figli di papà, e andassero a lavorare, e queste menate qua, quelle cose che dicono ancora nei corsi di formazione ai poliziotti, o urla il capo del reparto mobile mentre stanno intruppati pronti a caricare e sbattono i manganelli contro gli scudi. Sbam sbam sbam / ve lo rompiamo il culo noi / figli di papà.
E per dare quel tocco di credibilità – visto che tutte le biografie degli arresti dicono il contrario, persone che lavorano, studiano, cercano un posto – ricicciano fuori la storia della ragazza col rolex d’oro che imbratta una vetrina.
Renzi (Guido De Rege, detto Bebè): «Mentre quelli con il Rolex spaccavano le vetrine, altri si sono impegnati a ripulire». Alfano (Giorgio De Rege, detto Ciccio): «In piazza ho visto farabutti con il cappuccio e figli di papà con il Rolex».
E dàlle e dàlle, se scassa pure ‘o metalle. Succede così che Rolex s’è scassato. Cioè, l’Ad di Rolex Italia, Gianpaolo Marini, ha deciso di replicare con una «lettera aperta», ferma e garbata, indirizzata al presidente del Consiglio e al ministro dell’Interno pubblicata sui maggiori quotidiani. «Purtroppo – scrive tra l’altro – l’eco suscitata dalle vostre parole è stata straordinariamente vasta e ha prodotto l’inaccettabile affiancamento dell’immagine Rolex alla devastazione di Milano e all’universo della violenza eversiva». Il ministro dell’Interno, Alfano/Ciccio, ha creduto fosse il tempo della sua battuta: «Vi fate pubblicità?» Oh, gesù.
Epperò la cosa ha fatto subito il giro del mondo. «The Guardian», autorevolissimo giornale britannico: «Rolex accuses Italian PM of sullying watchmaker’s image» / Rolex accusa il Primo ministro di deturpare l’immagine della casa di orologi. «Bloomberg», autorevolissimo sito di finanza e economia, una sorta di preghiera mattutina per tutti gli operatori di borsa: «Rolex Runs Ad Saying Italian Government Disparaged Its Image» / Rolex manda un pagina di pubblicità accusando il governo di denigrare la sua immagine. Non vi sto a raccontare tutte le altre.
Il fatto si è che l’Ad di Rolex, Marini, ha detto pure un’altra cosa, un tantinello intelligente: «Credo che il dettaglio dell’essere o non essere l’orologio, di marca Rolex sia obiettivamente cosa marginale».
E invece, pensate un po’, per un paio di giorni è diventato il “cuore” delle questioni dopo che i “barbari” erano passati da Milano. Una cosa tutta giocata sul simbolico – si saranno dette le teste d’uovo del governo. Se loro, i “barbari”, vogliono questo terreno di scontro, ora glielo serviamo noi il piattino.
Quando a Londra, nel 2011, scoppiò una rivolta che levati, i giornali accusarono Blackberry – la Rim canadese dei cellulari – di esserne stato un veicolo. Il Blackberry dispone di un servizio Messenger crittografato, che secondo alcune ipotesi era stato usato dai manifestanti per collegarsi e scatenare disordini qui e là nella città. Accusarono l’azienda di non averlo disattivato. Una cosa da Grande fratello. La Rim, al contrario della Rolex Italia, non batté ciglio.
Il fatto è che in quella rivolta, i manifestanti, i telefonini li saccheggiavano, sfondavano i negozi di super elettronica e rubavano tutto quello che potevano, televisori al plasma, laptop. Anthony Giddens, che era la testa d’uovo di Blair e della Terza via, non riusciva a capacitarsi di questa cosa dei telefonini. Disse in un’intervista: «Saccheggiano perché il loro unico totem è il consumismo. I loro padri o nonni potevano protestare per un’ideale, loro protestano per andare a fare shopping».
Eh sì, signora mia, le rivolte non sono più quelle di una volta.
Però, questo è lo scenario nel quale ci ritroveremo. Da Clichy-sous-Bois, nella banlieue parigina, a Londra, da Atene a Milano, da Francoforte a Roma, «la rivoluzione è finita, è iniziata l’era della rivolta» – così scrive Marco Belpoliti, che è uno che ci ragiona sulle cose. Che aggiunge: «La rivolta è l’analogo della catastrofe, del collasso cui ci ha abituato il nuovo capitalismo finanziario, l’unica risposta possibile a una società che non sembra più avere nessun fondamento certo, nessuna teoria con cui giustificare il proprio dominio, se non la coercizione, l’uso della forza o la seduzione del consumo. Viviamo nell’epoca del disastro, come aveva intuito alla metà degli anni Sessanta Susan Sontag». La rivolta non prevede, ma vive nel subitaneo.
Così, dopo la rivolta dei telefonini, Londra 2011, abbiamo la rivolta dei rolex, Milano 2015. E dopo? A proposito, che ora è? Oh, non chiedetelo a Alfano, almeno per un po’.
Nicotera, 6 maggio 2015