Non è la prima volta che volano parole grosse tra padre e figlia Le Pen. La penultima, era stata il 2 aprile, quando in un’intervista all’emittente francese Bfmtv, il vecchio Le Pen aveva ripetuto ancora una volta – è dal 1987 che continua a ripeterlo – che le camere a gas sono state solo «un détail de l’histoire», un dettaglio della storia. La figlia Marine aveva preso le distanze. Stavolta siamo a un punto di rottura. Dopo l’ennesima sparata del padre – una lunga intervista alla rivista di estrema destra «Rivarol», che esce oggi ma che da qualche giorno ha già rilasciato ampi stralci, i cui pezzi forti oltre il «dettaglio» delle camere a gas sono la Vichy collaborazionista e il maresciallo Petain con cui si è stati troppo duri e che in fondo non era per nulla «un traître», un traditore, «l’Europe boréale et le monde blanc» che vanno salvati, e l’ondata di immigrati che ormai sta nei posti di comando, come Manuel Valls, primo ministro di origine spagnola e naturalizzato francese a vent’anni, una sorta di sintesi distorta di Submission di Houellebecq –, Marine Le Pen ha considerato colma la misura e deciso di prendere i provvedimenti necessari.
Il prossimo 17 aprile, giorno in cui si riunirà l’ufficio esecutivo del Front National il cui ordine del giorno è proprio la lista dei candidati, metterà un veto alla candidatura del padre alle prossime elezioni regionali, che si terranno in dicembre: lui vuole correre come governatore del Paca, la regione meridionale della Provenza-Alpi-Costa Azzurra. Poco conta che Le Pen padre rivendichi di aver raggranellato un rotondo 33 percento alle ultime elezioni europee e che garantisca di poter essere un buon amministratore. La tattica a metà «tra la terra bruciata e il suicidio politico» – come la le Pen ha definito le posizioni ribadite dal padre nell’intervista – non è più tollerabile da chi si candida a essere il prossimo presidente della Francia, da chi continua a volare alto nei sondaggi, da chi, nonostante il “ritorno” di Sarkozy e la sua vittoria alle ultime amministrative, pur non avendo preso alcun dipartimento, ha però fatto una buona messe di amministratori locali, per la prima volta nella storia del partito.
Il partito, almeno nei suoi vertici, sembra stare tutto dalla parte della Le Pen figlia. Florian Philippot, numero due del partito, ha detto che la rottura è «totale e definitiva». Louis Aliot, vicepresidente e compagno della Le Pen, considera l’intervista di Le Pen padre «assolutamente scandalosa e i nostri disaccordi politici ormai inconciliabili», mentre il deputato Gilbert Collard ha detto che Jean-Marie Le Pen dovrebbe ormai entrare «al museo delle cere». Ovviamente, Le Pen padre si aspettava tutto questo. Jérôme Bourbon, direttore della rivista «Rivarol», ha detto che l’intervista è stata curata nei minimi dettagli e tenuta segreta – lo sapevano solo il suo maggiordomo e la sua compagna –, e che prima di essere pubblicata è stata inviata a Le Pen per il suo definitivo consenso. Infatti, nel suo primo commento dopo la rottura con la figlia, Jean-Marie Le Pen ha rincarato la dose, dicendo ai microfoni della radio RTL: «Madame Le Pen deve porsi la questione di sapere se quello che fa è utile agli interessi che pretende di servire». Forse, pensa ancora di avere la pancia della “nation” con lui, quella strano sostegno al Front National in cui annovera «les défenseurs de l’Algérie française, mais aussi les gaullistes, les anciens communistes et tous les patriotes qui ont la France au coeur», i difensori dell’Algeria francese, ma anche i gollisti, i comunisti d’una volta e tutti i patrioti che hanno a cuore la Francia.
Non c’è mai stata, nella storia della politica europea, una tale frattura dentro una “famiglia politica”, anche perché di famiglie politiche di questo livello in realtà non se ne contano molto. I figli sono eredi tranquilli dei serbatoi elettorali dei padri, e dei loro magheggi, spesso senza esserne all’altezza. Per dire, da noi, vengono in mente i Craxi, i Segni, i La Malfa: nessuno si è mai distinto – sulla questione del “trota” che non era ancora un delfino, ovvero Bossi junior, meglio stendere un pietoso velo –, e forse per questo non c’è stata mai una frattura politica che fosse anche generazionale. Figli di padri che hanno avuto un ruolo determinante in politica, in genere hanno scelto altre strade, le carriere universitarie, le professioni, il giornalismo, e si capisce. Più spesso, i figli “politici” che sono gli eredi scelti e allevati hanno dovuto fare i conti con l’ingombrante eredità delle figure “paterne”: ma, a esempio, la Merkel, che fu imposta da Kohl a un partito che la sentiva estranea – lei dell’est, figlia di un pastore protestante a capo di una formazione politica cattolica – non solo si è sempre richiamata alla figura “paterna”, che era stato capace di rimettere assieme i pezzi della Germania e a rimetterla al centro dell’Europa, ma è riuscita a essere altrettanto grande e rispettata.
La “rottamazione” di Renzi – che ha fatto fuori i tenutari politici del Partito democratico – è già un’altra storia: più che una rivola generazionale sembra come se l’alieno virale che hai allevato dentro fosse riuscito a prendersi tutte le funzioni del tuo corpo. Le “guardie del corpo” di Renzi – gli ex giovani turchi, gli ex bersaniani, gli ex dalemiani – quelli che, adesso, se appena appena tocchi il capo ti azzannano, e ti rivoltano contro le carte e i documenti che hanno sottratto fuggendo, ecco, quelli, meglio lasciar perdere.
Questa dei Le Pen è davvero un’altra storia. È una storia di nessun profilo psicologico banale – ammesso ci sia, non è questo il carattere determinante – ma di importante segno politico, non solo per la Francia ma per l’Europa tutta. Che il vecchio Le Pen sia un impenitente fascista e rappresenti tutto il declino e gli orrori di una Francia che una volta era stata grande – il Vélodrome d’Hiver e l’antisemitismo, il collaborazionismo di Pétain e Vichy con gli invasori tedeschi, il colonialismo dell’Indocina e dell’Algeria e il terrorismo dell’Oas, il massacro del 1961 a Parigi quando centinaia di algerini furono bastonati a morte e gettati vivi nella Senna e più di diecimila arrestati – non è certo una sorpresa. Che tutto questo orrore faccia parte della storia ancora viva della Francia, e costeggi la storia di tanta sua politica anche recente, e sia questa “complicità” che abbia fatto del vecchio Le Pen ogni volta un serbatoio di consensi, non è una sorpresa.
La sorpresa è che contro tutto questo “maligno” a agitare la spada del “bene” sia la figlia. Opportunismo politico? Il bisogno di riconquistare quel centro “moderato” su cui Sarkozy è rinato dalle ceneri ricordando le proprie credenziali di uomo forte, capace di governare e non solo di protestare? Può essere, certo. Le parole però hanno un peso. Marine Le Pen dice che le provocazioni del padre sembrano avere come «unico obiettivo danneggiare me, ma sfortunatamente sono un colpo all’intero movimento, ai suoi quadri, ai suoi candidati, ai suoi sostenitori, ai suoi elettori». Sono parole di un leader. Che, respingendo le sciocchezze del padre, dice perciò che non è antisemita, che non è petainista, che non è per la “supremazia bianca”, o boreale che dir si voglia.
E questa, in quest’Europa d’adesso, è una buona notizia.
Nicotera, 8 aprile 2015