Gracchiano i corvi neri, i cerchi del loro volo si fanno più stretti, il loro orribile verso più stridulo. Si fanno più arditi. Sentono l’odore della morte. Non fanno paura, quello no. Se gli vai contro, svolazzano via. Inquietano, quello sì, come se scavassero nella tua anima, come se annunciassero ancora orribili sciagure. Portano sventura. È per quello che sono qui, per dire che domani ci sarà ancora morte, e ancora domani, e ancora morte. Loro, ci campano con la morte. Tornano e tornano.
Gli è andata male con Graziano Stacchio, il benzinaio di Ponte di Nano, nel Vicentino, che per soccorrere una commessa di una gioielleria assediata da rapinatori era entrato in casa aveva preso il fucile e dopo avere sparato in aria aveva mirato alle gambe di uno degli assalitori, e quello, il giostraio nomade, era morto, abbandonato dai suoi. «È un eroe», avevano subito dichiarato i corvi neri. E vai con gli hashtag #iostoconstacchio, e le magliette e le felpe. Come se tutti dovessimo entrare in casa e prendere il fucile e scendere in strada a sparare alle gambe del primo che passa, così, giusto per tenerci all’erta. Stacchio, lui, aveva subito allontanato i corvi. Non si sentiva fiero di quello che aveva fatto. Era successo. Punto.
Ora ci riprovano, i corvi. Con David Raggi, ucciso l’altrieri a Terni, di notte, da un ubriaco con un colpo di bottiglia al collo. È marocchino, l’assassino, si chiama Amine Aassoul. Entrato e uscito dall’Italia, espulso per una serie di reati nel 2007, rimpatriato, rientrato attraverso Lampedusa l’altr’anno. Dicono, i corvi, che se la caverà, perché gli daranno l’attenuante dell’alcol in corpo, è già successo, l’altra volta un albanese, ubriaco, guidava contromano e ha falciato degli innocenti, e non ha preso l’ergastolo, o quattro ergastoli uno per ogni vita recisa. E cosa dovrebbe un giudice, invece, dargli l’aggravante a Amine Aassoul d’essere marocchino? D’essere clandestino? D’essere un balordo? Di non essere morto affogato nel Canale di Sicilia, la prima o la seconda volta che lo passava?
Ecco, sì, se li ammazzassimo noi, se li lasciassimo affogare, se gli sparassimo dalle motovedette, ecco, prevenire ecco, non succederebbe un fatto come quello di Terni, così dicono i corvi. Dovremmo ammazzarne cento, mille per educarne uno, ecco sì. Credete sia il cinismo di queste parole che mi spaventa, che mi fa orrore? No, è la stupidità. Avremmo meno assassini se affondassimo i barconi degli immigrati? Avremmo meno ubriachi se sparassimo a tutti i marocchini? Ai corvi, non importa nulla di David Raggi, non importa nulla della sua famiglia, del dolore che sta provando, del vuoto che si porteranno appresso sempre, no, a loro interessa Amine Aassoul. Ai corvi interessano gli assassini, i tagliagole, i Caino, non Abele. Abele non interessa mai nessuno.
In nome di Abele parla il padre di David Raggi. In nome di Abele parla il fratello di David Raggi. Non del proprio figlio, del proprio fratello. Parlano di giustizia, non di vendetta. Parlano dell’odio razzista che non entrerà mai nella loro casa. Parlano degli estremismi che non sono mai piaciuti in quella loro casa. Parlano del fatto che non vogliono che la vicenda di David venga strumentalizzata. David – dice Diego, il fratello – non lo avrebbe mai voluto. Abele non vuole che Caino venga linciato.
È gente che si è rotta la schiena, la famiglia di David, che se la rompe ancora. Sembra ci sia ancora una comunità a Terni, un senso di comunità, di appartenenza. Ci si stringe attorno: i preti fanno le loro omelie; gli amici di David fanno la loro veglia. Forse è la fabbrica, quel che ne resta. Forse è che ci si conosce tutti. Forse è che la chiesa sta ancora vicino agli uomini. È l’Italia di sempre. Quella che emerge solo quando la terra si spacca, quando il cielo precipita. Non l’avresti mai conosciuto uno come David. Non ballava il tip tap, non aveva l’ugola d’oro, non faceva le imitazioni da sganasciarsi dalle risate. Non sgomitava.
Volontario del 118, lui stesso ha chiamato i soccorsi. Anche la madre partecipa di associazionismo, e il padre. È gente così. Che scambia due chiacchiere con gli ambulanti all’angolo quando esce per il giornale e la spesa, che va in chiesa e prega. È gente solida, la spina dorsale forte. L’altrieri gliel’hanno spezzata, certo. Urleranno contro Dio?
No, certo, non è caduta una tegola dannatamente dritta su una testa, non è il destino bastardo, il caso assassino. Non è la congiuntura di trovarsi in un posto al momento sbagliato. Non fatemi pensare sciocchezze. C’è un colpevole, di un reato tanto più assurdo perché incosciente. Dovranno pensarci gli uomini a trovare giustizia: è questo che fa di noi una società, le leggi, i diritti. Avremmo più sicurezza se fossimo tutti armati? Avremmo più sicurezza se tagliassimo la testa a ogni Caino?
Il segretario della Lega, Matteo Salvini, dice che David Raggi è una vittima di Mare Nostrum. Che è come dire che Adrian Miholca, operaio rumeno, morto qualche giorno fa mentre demoliva una campata di un viadotto della Salerno-Reggio Calabria – ottanta metri di volo – è una vittima del comunismo dei paesi dell’Est.
Che paese è mai diventato questo dove bisogna tappare la bocca ai politici, a quelli che si mettono in vista, a quelli che urlano forte? Che paese è mai diventato questo dove il primo pensiero di chi vive una tragedia dev’esser quello di calmare gli animi, di tenere lontane le grida dei politici? Dovrebbero guidarci, i politici, verso alti ideali, dovrebbero parlare ai nostri cuori, alle nostre teste, alle nostre mani, non alle viscere e al buco del culo. Dovrebbero tenerci insieme, i politici, per fare di noi un popolo, una società, una nazione, che giorno dopo giorno va verso qualcosa, che sogna e fatica, che fatica perché sogna.
Abele è ancora lì, in terra. Caino è stato preso. Loro, i politici, litigano l’un l’altro, si accusano l’un l’altro, si scolpano l’un l’altro. Non gli importa di Abele. Non gli importa neppure di Caino.
A loro importa solo gracchiare il loro cra cra di morte, di sventura.
Tacete, almeno oggi. Ci sono i funerali.
Nicotera, 16 marzo 2015