Giovanni Arnoldi, Giulio China, Eugenio Corsini, Pietro Dendena, Carlo Gaiani, Calogero Galatioto, Carlo Garavaglia, Paolo Gerli, Vittorio Mocchi, Luigi Meloni, Mario Pasi, Carlo Perego, Oreste Sangalli, Angelo Scaglia, Carlo Silvia, Attilio Valè, Gerolamo Papetti. Sono i nomi delle diciassette vittime della bomba che scoppiò nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano.
L’esplosione avvenne alle 16:37. Una bomba. Uccise quattordici persone (altri tre moriranno nei giorni successivi) e ne ferì ottantotto. L’ordigno era stato collocato sotto il tavolo, al centro del salone riservato alla clientela, di fronte all’emiciclo degli sportelli in modo da provocare il massimo numero di vittime. La banca era zeppa di persone. Un’esplosione di enorme potenza. Nei primi attimi dopo l’attentato non ci si rese conto della natura reale della deflagrazione, e qualcuno addirittura pensò che fosse scoppiata la caldaia della banca.
Una seconda bomba nella sede milanese della Banca Commerciale Italiana, in piazza della Scala, non esplode. Verrà fatta brillare successivamente distruggendo in tal modo elementi per risalire all’origine dell’esplosivo e a chi abbia preparato gli ordigni. Una terza bomba esplode a Roma alle 16:55 nel passaggio sotterraneo che collega l’entrata di via Veneto della Banca Nazionale del Lavoro con quella di via di San Basilio, ferendo tredici persone. Altre due bombe esplodono a Roma tra le 17:20 e le 17:30, una davanti all’Altare della Patria e l’altra all’ingresso del Museo centrale del Risorgimento, in piazza Venezia, ferendo quattro persone.
In quel terribile 12 dicembre, ci sono perciò cinque bombe, nello spazio di un’ora, che colpiscono contemporaneamente Roma e Milano. Se non era strategia della tensione, questa.
Il 12 dicembre l’anarchico Giuseppe Pinelli viene convocato e interrogato in Questura. Il 15 dicembre, dopo tre giorni di interrogatori, Pinelli precipita dal quarto piano della Questura di Milano e muore sul colpo. Fu aperta un’inchiesta giudiziaria – coordinata dal sostituto procuratore Gerardo D’Ambrosio – che indicò la causa della morte in un “malore attivo” in seguito al quale l’uomo sarebbe caduto da solo, sporgendosi troppo dalla ringhiera del balcone della stanza. Nessuno crederà mai veramente a quella spiegazione. Gerardo D’Ambrosio scrisse: «L’istruttoria lascia tranquillamente ritenere che il commissario Calabresi non era nel suo ufficio al momento della morte di Pinelli». Nessuno crederà mai veramente a quella spiegazione. Il 17 maggio 1972 Luigi Calabresi fu assassinato sotto casa.
Il 16 dicembre venne arrestato un altro anarchico, Pietro Valpreda. Il tassista Cornelio Rolandi lo indica come l’uomo che quel pomeriggio era sceso dal suo taxi dalle parti di piazza Fontana portando dietro una grossa valigia. Nonostante le numerose incongruenze della sua deposizione, Rolandi intasca la taglia di cinquanta milioni di lire disposta per chi avesse fornito informazioni utili. A Valpreda vennero contestati i reati di omicidio di quattordici persone e il ferimento di altre ottanta. Il giorno dopo «il Corriere della Sera» titolerà sulla cattura del “mostro”. Forse perdemmo anche la nostra innocenza sull’informazione, quei giorni.
Il 25 aprile 1969 una serie di bombe ad alto potenziale erano esplose alla Fiera e alla stazione centrale di Milano, provocando una ventina di feriti. Tra l’8 e il 9 agosto dell’estate 1969 otto bombe rudimentali esplodono su altrettanti treni in diverse località d’Italia, provocando dodici feriti. Per questi attentati e per quelli dell’aprile 1969, verranno condannati Franco Freda e Giovanni Ventura – due ideologi della destra eversiva in Veneto – a quindici anni di reclusione. Nel processo venne accertato che quegli attentati facevano parte di un unico piano eversivo che doveva portare fino alla strage di piazza Fontana. Se non era strategia della tensione, questa.
La strage, per una intera generazione, quella del Sessantotto, fu «di Stato»: pezzi deviati dello Stato lavoravano in modo occulto e violento contro le rivendicazioni dei movimenti sociali. Forse allora sembrò un’idea spiccia e semplificatoria, ma nel tempo – e questo probabilmente è più terribile – quella lettura si dimostrò realistica. Nello Stato si annidava una struttura parallela e antidemocratica. Il potere non era disposto a cedere e era pronto a qualsiasi nefandezza. La strage di piazza Fontana ha segnato indelebilmente la storia di questo paese. Oggi tutto questo sembra appartenere a un mondo che non c’è più, a un mondo che non ci sarebbe mai dovuto essere. Però, non si dovrebbe mai dimenticare. Il potere mostrò il suo volto più nascosto, il volto del male. A quella strage ne sarebbero seguite altre, come a piazza della Loggia a Brescia, nel 1974, durante un raduno sindacale, o alla stazione di Bologna, nel 1980.
Sono passati quarantacinque anni da quel 12 dicembre 1969 e si sono celebrati sino a oggi sette processi, ma non si è mai giunti all’identificazione certa dei colpevoli e delle responsabilità; soltanto alcuni esponenti dei servizi segreti italiani (il generale Gianadelio Maletti e il capitano Antonio Labruna) sono stati condannati definitivamente per depistaggi. L’unico colpevole per la bomba del 12 dicembre 1969 è il pentito Carlo Digilio, che aveva fatto parte della cellula eversiva nera veneta, e ne aveva indicato le precise responsabilità, oltre la propria, ma la sua credibilità è stata ritenuta discontinua, e quindi per alcuni fatti le sue parole sono buone, per altri no. In ogni caso è non perseguibile.
Il 3 maggio 2005 la Corte di Cassazione ha confermato le assoluzioni di Carlo Maria Maggi, Giancarlo Rognoni e Delfo Zorzi, indicati da Digilio, decise in appello. Ha anche confermato che la strage fu organizzato da «un gruppo eversivo costituito a Padova nell’alveo di Ordine nuovo» e «capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura». Ma né l’uno né l’altro – Ventura è morto poi nel 2010, a Buenos Aires – erano più processabili perché assolti per questo reato con sentenza passata in giudicato.
Il 22 aprile di quest’anno la presidenza del Consiglio ha stabilito «la declassificazione della documentazione relativa a gravissimi eventi che negli scorsi decenni hanno segnato la storia italiana, con l’obiettivo di rendere conoscibili in tempi più brevi tutti i documenti tenuti dalla pubblica amministrazione». Gli atti indicati nella direttiva sono quelli relativi agli eventi di piazza Fontana a Milano (1969), di Gioia Tauro (1970), di Peteano (1972), della Questura di Milano (1973), di piazza della Loggia a Brescia (1974), dell’Italicus (1974), di Ustica (1980), della stazione di Bologna (1980), del Rapido 904 (1984). Quindici anni di sangue. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega alla sicurezza, Marco Minniti, ha però detto subito che è impossibile trovare tra quelle carte una «pistola fumante», che a quest’ora l’avrebbero trovata già i giudici. A noi però le carte servono per non dimenticare.
I documenti, che andranno all’Archivio di Stato, saranno perciò consultabili da tutti i cittadini. Solo che, almeno sino a questo momento, ne è arrivata una minima parte. Peraltro, nei documenti che verranno resi disponibili non si troveranno documenti già coperti dal segreto di Stato. Per legge, infatti il segreto di Stato non può riguardare informazioni relative a atti terroristici, stragi e eventi di mafia. Il che significa che il materiale che arriverà è stato già acquisito dalle procure che negli anni hanno indagato su ogni singolo evento così come dalle Commissioni parlamentari di inchiesta.
Davvero non c’è nient’altro?
Roma, 11 dicembre 2014