Io a Buzzi me lo ricordo. Una vita fa. Tra i primi anni e metà degli Ottanta. Stavamo, ehm, nello stesso circondario: carcere di Rebibbia. Lui al penale, io, con altri detenuti politici, all’Area omogenea, dove cercavamo di sfuggire alla tenaglia Brigate rosse/Stato. Eravamo riusciti a sollecitare attenzione di una parte del mondo politico sulla questione del carcere. Facevamo incontri con parlamentari di vario segno politico, producevamo documenti per convegni, ragionavamo sulle possibilità di “socializzare il carcere”. Tutto quello che poi determinò e si coagulò nella legge Gozzini, con straordinarie opportunità di reinserimento.
Buzzi era dei bravi ragazzi. Di quelli che sanno stare in carcere. Con noi non aveva rapporti continui diretti – non che avessimo un “divieto di incontro”, ma la direzione teneva gli uni separati dagli altri –, però era sveglio e capì che quello che stavamo facendo poteva tornare utile ai “comuni”. Noi stavamo lavorando a un convegno da tenere dentro le mura di Rebibbia. Lui pensò che fosse più “normale” che il convegno lo tenessero loro, i comuni. E ci riuscì. Qualcuno di noi poi ci andò. Articoloni de “l’Unità”, del “manifesto”. Pietro Ingrao ci scrisse su una cosa da strappacuore. Una roba di sinistra, insomma, di garanzie e diritti e libertà. Non che Buzzi fosse di sinistra, era sveglio però.
Nacque così la cooperativa 29 giugno, che è poi la data da cui per loro tutto ebbe inizio. La prima cooperativa di detenuti in Italia. Un fiore all’occhiello, per l’amministrazione penitenziaria. Negli anni, centinaia di detenuti sono usciti dal carcere e hanno trovato forme di sussistenza e reinserimento per mezzo della cooperativa. La cooperativa che è al centro dell’indagine giudiziaria che ha portato a trentasette arresti e un centinaio di avvisi di garanzia. Nacque facendo bottiglie di pomodoro da rivendere, e poi pulendo gli spazi di Rebibbia e poi allargandosi piano piano. Una gran mano gliela diede Angiolo Marroni, comunista, che allora era vicepresidente della Provincia e che si costruì il resto della carriera politica, e anche quella del figlio, Umberto, ora deputato Pd – i carcerati hanno un sacco di familiari da far votare – su quelle iniziative dei detenuti, fino a diventare il loro Garante per la Regione, vita natural durante. E a destinare i congrui fondi. La cooperativa 29 giugno entrò a far parte della rete della Lega delle cooperative, quella dove imperò Poletti, ora ministro del lavoro. Un fiore all’occhiello per la Lega. E ecco spiegata la foto che svolazza sui giornali e sul web, come prova del crimine. Buzzi, i Marroni, Poletti. E Alemanno. Tutti a cena. Alemanno era il nuovo “interlocutore” della 29 giugno: era lui, il sindaco, quello che decideva sulla pulizia delle aree verdi di Roma, sul mantenimento del decoro urbano, insomma su quella marea di appalti e di proroghe di appalti che intanto la cooperativa crescendo si era aggiudicata. E da chi dovevano andare?
Forse è in quel momento lì che nasce il rapporto con la destra di Carminati, o forse prima. Davvero, qui parlare di destra e sinistra è una cosa senza senso. Si sono bevuti pure Emanuela Bugitti, che era presidente della cooperativa, e che una vita fa s’era presa una quindicina d’anni di carcere perché con le Brigate rosse avevano ammazzato un funzionario di polizia a Venezia. Per dire. Ci sono in ballo soldi, tanti soldi, perché la cooperativa, nel tempo, si era infilata in tutto ciò che riguarda le “situazioni svantaggiate” – rom, immigrati, profughi, rifugiati – e se non lo facevano loro, che erano carcerati, chi meglio? E perciò ci mangiavano tutti. Soldi per tutti. Per sé e per gli altri. Tanti soldi. Tanta corruzione.
Ma questo non cambia una virgola rispetto le criticità dell’impianto accusatorio, quell’associazione di tipo mafioso. Carlo Bonini, di «Repubblica», ci va a peso: dice che siccome sono novecento pagine – in realtà l’ordinanza è di milleduecentoventotto, ce l’ho qua, se vuole gliela presto – vuol dire che i magistrati ci hanno lavorato parecchio e perciò qualcosa c’è. Ora, si potrebbe obiettare a Bonini che le indagini non si valutano “a peso”, e neppure il giornalismo se è per quello, e che ci sono state decine di ordinanze pesanti che però si sono rivelate tutta fuffa. Ma ognuno fa il suo mestiere. Giovanni Bianconi, sul «Corriere», va invece a fiducia: dice che ci sarà pure un giudice che giudicherà sulla bontà dell’«insolito reato» – scrive proprio così –, però per intanto prendiamolo per buono.
Ora, a me di prendere per buona un’ordinanza che dice «in concreto, in una prima approssimazione si determineranno gli essentialia di un’organizzazione di tipo mafioso, avuto riguardo alla definizione normativa, e, successivamente, si individueranno indici rivelatori della sua esistenza secondo la giurisprudenza», cioè di fare le cose al rovescio, proprio non mi va. E dove sta il carattere “intimidatorio” di questa associazione? Qui magnavano tutti, qui se spartivano tutto, qui annavano tutti a burro e alici, altro che intimidazione.
Dice che la “teoria programmatica” di Mafia Capitale sta tutta in quel “mondo di mezzo” pensato da Carminati. Che intercettato in un colloquio con un sodale (tal Guarnera), spiega: «ci sta un mondo.. un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano e dici cazzo come è possibile che quello… …(inc.)… come è possibile che ne so che un domani io posso stare a cena con Berlusconi…». Benedetto Carminati, se era questo tutto quello che volevi potevi chiedere alla D’Addario e te lo spiegava lei come era possibile stare a cena con Berlusconi. E se per quello pure a letto.
Il generone romano della Grande Bellezza di Jep Gambardella è diventato mafioso. Sarà. Ahò, manco a quelli della Magliana – e sciacquiamoci la bocca, con rispetto parlando – gliel’hanno dato il 416 bis, e mo’ glielo date a Alemanno?
A me comunque le arance a Alemanno non va di portarle. E se per quello neppure a Buzzi. Ne avrà di soldi per comprarsi le arance e per comprarle ai suoi detenuti, adesso, a Rebibbia, no?
Nicotera, 3 dicembre 2014
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