«Roma è una città estremamente complessa, perché mentre a Palermo e Reggio Calabria tutto viene ricondotto alla mafia, qui i problemi sono tanti. Credo che non bisogna negare, come accaduto altrove, che ci sia un problema di infiltrazioni mafiose».
Sono le parole precise che il magistrato pronunciò in un convegno sulla giustizia esattamente due anni fa. Riportate in un corposo reportage de “l’Espresso” dal titolo I quattro re di Roma. Dove si può trovare l’ossatura “concettuale”, diciamo così, dell’operazione di ieri con cento indagati e trentasette arresti. E anche qualche nome lui per lui. D’altronde, sempre “l’Espresso”, a settembre e novembre di quest’anno, era tornata con insistenza sulla cosa, prima con un reportage di Lirio Abbate (I fasciomafiosi alla conquista di Roma) – peraltro recentemente oggetto di un’intimidazione – in cui si sosteneva che i criminali (neri e di qualunque colore) romani avevano stretto un patto per cui non si sarebbero ammazzati a vicenda. «Il patto è stato siglato dopo che i boss hanno appreso dell’arrivo a Roma del nuovo procuratore Giuseppe Pignatone». (testuale). E poi con una lunga intervista a Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia, che sistematizzava quanto già detto: la destra eversiva aveva stretto un patto con la criminalità, spartendosi zone e influenze e affari, e costituendo un’unica organizzazione. Droga. Diamanti. Immobiliare. Usura. Pizzo. Appalti. Non c’erano morti ammazzati? Bè, questa era prova provata del ragionamento: avevano scelto un basso profilo, proprio per non dare nell’occhio. Ma, aggiungeva, «oggi, però, il nuovo procuratore Pignatone e l’aggiunto Prestipino hanno saputo portare a Roma la grande capacità ed esperienza maturate a Palermo e Reggio Calabria». (testuale). Insomma, indagine telefonata, arresti telefonati. Che poi, se andiamo a vedere, di Palermo rimane indelebile ricordo nell’inchiesta che portò alla condanna di Totò Cuffaro – parliamo di concorso esterno a associazione di tipo mafioso – e di Reggio Calabria la gestione, nel “caso Cisterna”, diciamo così, controversa del mafioso pentito Nino Lo Giudice, che confermò, ritrattò, scomparve, scrisse memoriali in cui accusò, svanì. Insomma, la mafia Pignatone se la porta dietro (oltre all’aggiunto Prestipino, già a Reggio Calabria). Se la porta dentro, nella testa.
Ora – Dio mi perdoni per quello che sto per dire –, io Alemanno che si punge il dito e si fa bruciare l’immaginetta di San Gabriele Arcangelo fra le dita o che pronuncia il giuramento di fedeltà all’onorata società su Garibaldi, Mazzini e Lamarmora, io proprio non ce lo vedo. Per quanto lo ritenga capace di ogni nefandezza e di ogni sciocchezza, io, mafioso, Alemanno proprio non ce lo vedo. Però, è proprio questa la fattispecie di reato: 416 bis. Associazioni di tipo mafioso anche straniere.
Ora, Alemanno ha gestito il comune di Roma in maniera indecorosa: e l’inchiesta Parentopoli, con le assunzioni facili di mogli, amici, segretarie e amanti, tra il 2008 e il 2009 con centinaia di contratti “anomali”, aveva già fatto luce su questa inclinazione del nostro. Che tra i compagni di merenda di Alemanno ci siano fascistoni e che siano stati “premiati” con posti di prima qualità per lo stipendio e per il giro di affari – come Riccardo Mancini, ex ad di Eur spa, o Franco Panzironi, ex amministratore delegato della municipalizzata dei rifiuti (Ama), anche loro ora coinvolti nella nuova indagine – non è un segreto. Per fare un breve elenco: in Atac l’ex Nar Francesco Bianco e l’ex di Terza Posizione Gianluca Ponzio; gli ex skin Mario Vattani (suo consigliere diplomatico poi diventato console in Giappone e poi rimosso) e Stefano Andrini (ex ad di Ama servizi integrati); Loris Facchinetti, leader del movimento neopagano e paramilitare di estrema destra, collaborava con il Comune a titolo gratuito; ma ci sono anche Claudio Corbolotti e Mirko Giannotta, che nel 2008 era diventato capoufficio del decoro urbano del gabinetto del sindaco.
Ma immaginare Alemanno che collabora attivamente a un’associazione criminosa che «si avvale della forza di intimidazione (del vincolo associativo) e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri», io proprio non ce lo vedo. È sceso giù in Calabria, Alemanno, per sostenere i candidati di Fratelli d’Italia nelle elezioni regionali, e aveva un’aria dimessa e invecchiata. Come di una cosa arrugginita. Imbolsito come un pugile suonato. Non gli è andata bene, a quelle regionali. Sta proprio alla frutta, Alemanno. Ha dichiarato che uscirà «a testa alta» dalle indagini. Gli auguro ne esca fuori. Ma che esca «a testa alta» da qualcosa, ormai, la vedo proprio dura.
Non riesco nemmeno a immaginare Mirko Coratti (Pd), presidente dell’Assemblea capitolina, come mafioso. O i consiglieri regionali Luca Gramazio (Pdl) e Eugenio Patanè (Pd). O Luca Odevaine, ex capo di gabinetto di Veltroni e poi direttore extradipartimentale di Polizia e Protezione Civile della Provincia di Roma, insomma un uomo di apparato Pd. Immaginare tutti questi signori che prendono ordini da Massimo Carminati – l’anima eversiva nera di questa e altre indagini, più volte condannato e a piede libero, adesso arrestato e indicato, almeno sinora, come il capo dell’organizzazione criminale –, che impartiva ordini e tirava i fili della complicata matassa tra dirigenti, burocrati, gente di malavita, politici di destra e di sinistra, viene davvero difficile.
Dell’inchiesta noi nulla sappiamo, tranne il clamore suscitato, le perquisizioni negli uffici alla Regione e in Campidoglio, il sequestro di beni per un valore di duecento milioni. Sappiamo che ci hanno lavorato i pubblici ministeri Luca Tescaroli, Paolo Ielo e Giuseppe Cascini – magistrati con un cursus honorum da qua a laggiù. E sappiamo che è durata due anni. Giusto il tempo dell’arrivo a Roma del procuratore capo Pignatone. Che ha setacciato dieci anni della città.
Che a Roma l’eversione di destra abbia sempre avuto rapporti con la criminalità, e le devianze dello Stato, è ormai storia, non solo cronaca. Che Roma sia stata sempre “bazzicata” da mafiosi, camorristi, casalesi e ndranghetisti è ormai storia, non solo cronaca. Che a Roma la corruzione politica e amministrativa negli appalti, nell’edilizia, nei servizi pubblici sia cancrena, è ormai storia, non solo cronaca.
Ma che tutto questo sia un solo gnommero e che per dieci anni Roma sia stata “governata” dalla mafia di Carminati, bè, questo, aspettiamo che l’indagine ce lo spieghi.
Nicotera, 2 dicembre 2014
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