John Cantlie, inviato da Kobane per conto di Allah

John Cantlie ha quarantaquattro anni e è un bravo fotoreporter inglese di guerra che ha lavorato come freelance per il «Sunday Times», il «Sun» e il «Sunday Telegraph». Sul sito del «Telegraph» si può ancora vedere un suo videoreportage del 2012 da Saraqeb, Siria, che racconta l’opposizione di massa al regime di Assad, la violenza delle truppe regolari che schierano i tank russi contro la popolazione e la prima resistenza. Sono immagini di “prima”. Prima che in Siria dalla parte della ribellione finisse con il prevalere l’ala più fondamentalista, nell’incertezza e nella sostanziale immobilità della comunità internazionale restia a impegnarsi per buttare giù Assad, convinta sotto sotto che sarebbe stato comunque meglio tenersi lui che dare spazio ai ribelli islamisti. La realtà è che i ribelli islamisti hanno avuto la meglio, proprio perché la comunità internazionale non si è mossa. Obama ha alzato la voce, ma non il telefono per dare l’ordine di attacco. Gli americani non vogliono saperne di mettere gli scarponi sul campo. E va bene. Ma sono pure restii a impegnarsi più di tanto. Gli europei fanno gli gnorri. Assad, sostenuto da Putin, rimane al suo posto, e anzi adesso è diventato più importante per l’equilibrio geopolitico dell’area. Lui lo sa. Lui rimane il “nostro figlio di puttana”. Cantlie raccontava queste cose.
Poi lo rapirono, in luglio, insieme a un collega olandese. Provò a scappare e lo ferirono. Non lo curavano. In custodia lo tenevano una quindicina di suoi connazionali convertiti. Erano i più duri. Ogni tanto lo picchiavano. Ogni tanto gli gridavano “Die, die, muori, muori”. Poi venne un medico che aveva un kit di medicine e pronto soccorso del National Health inglese, e lo rimise a posto alla meglio. Poi, Cantlie fu liberato, dai ribelli, da quella frangia che non voleva saperne di fondamentalismo.
Tornò a fare il suo lavoro, in Siria. Fu sequestrato di nuovo. È prigioniero dal novembre 2012.
Da qualche tempo, l’Isil manda dei suoi video. Nei primi appariva con la tuta arancione, come i prigionieri di Guantanamo e come gli ostaggi che vengono decapitati. Lui però stava dietro una scrivania, con due telecamere fisse puntate addosso e microfonato. Insomma, una cosa professionale. Il Gran Califfo dell’Orrore, Abu Bakr al-Baghdadi, ha un reparto che si occupa di media e comunicazione, al Furqaan. Sigla, musichetta, dissolvenza, In diretta le news dal mondo dell’orrore.
«Lend me your ears», prestatemi ascolto. Comincia così il primo dei video di Cantlie. È smagrito e ha l’aria di chi è nelle mani dei suoi carcerieri e non sa se domani vedrà un nuovo giorno. Deve conquistarsi la fiducia di chi lo guarda. «Voi pensate che io parli così perché ho una pistola puntata alla testa, ma le cose non stanno in questo modo». Per cinque video Cantlie racconta del suo percorso personale. L’ambientazione è sempre la stessa, una scrivania, uno sfondo anonimo, lui con la tuta arancione. Parla dei fondamentalisti e dell’Isis, lo Stato islamico dell’Iraq e della Siria. Parla delle storture e delle brutture dell’Occidente guerrafondaio. «Join me for the next programs and I think you might be surprised at what you learn», seguitemi la prossima volta e penso che resterete sorpresi da quello che imparerete. Si dice che a volte al Furqaan prepari più video nello stesso momento e poi li scadenzi come se fossero realizzati in tempi diversi. Fatto sta che per un po’ Cantlie non si vede.
È comparso qualche giorno fa. Non ha più la tuta arancione, è vestito di nero, ha un’aria meno sperduta, i capelli più lunghi e un filo di barba e baffi. È a Kobane, dove si combatte la più importante delle battaglie dal punto di vista simbolico, da una parte le milizie dell’Isis, dall’altra i curdi dell’Ypg, del Pkk e i peshmerga che resistono. Una battaglia impari, perché l’Isil ha ammassato truppe e mezzi in modo inverosimilmente massiccio e dall’altro lato ci si batte con armamento leggero. Gli americani hanno mandato dei droni e hanno sganciato qualche bomba. Servono a poco quando ormai si combatte casa per casa, hanno rallentato un po’, niente di più. I turchi continuano a fare gli stronzi, preoccupandosi più dei curdi che dei fondamentalisti.
Cantlie fa il suo reportage da Kobane. Fa il suo mestiere. Dice che le cose non stanno come raccontano i media occidentali, che la resistenza è ormai poca cosa, che l’isil ha in mano la città che sta per cadere. Dice che i giornalisti occidentali ricevono veline dai comandi militari alleati e che sul campo non c’è nessuno dei media. Oltre lui, naturalmente. A un certo punto del video ruota il corpo e fa un gesto come a guardarsi intorno e dire: Vedete qualche giornalista, oltre me? Lui parla dal tetto di una casa di Kobane – la telecamera indugia sullo sfondo del quartiere. Ancora professionalità di al Furqaan: il video inizia con una ripresa dall’alto, un drone – li hanno anche loro e ormai il kit si vende su internet, come fosse un ultraleggero da montare nel garage – che gira ampio per poi scendere su Cantlie. Cantlie è sciolto, a volte fa dell’ironia, cita con precisione le dichiarazioni di questo o quel comandante americano. Ora lavora per l’Isil. Non è più un freelance. È un giornalista embedded. Embedded dell’Isil, lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante.
Quando infuriava la battaglia tra l’Isil e i ribelli nella provincia di Deir Ezzor, Siria, c’erano diversi giornalisti che documentavano il caos. Poi l’Isil prese il possesso di Deir Ezzor e diramò delle regole per i giornalisti che avessero voluto continuare il proprio lavoro Molti preferirono andarsene via. Qualcuno rimase.
Le condizioni per rimanere e fare reportage erano riassunte in undici regole, che vale la pena riportare integralmente: 1) i corrispondenti devono giurare fedeltà e obbedienza al Califfo al-Baghdadi… sono soggetti dello Stato islamico e, in quanto tali, sono obbligati a giurare lealtà al loro imam; 2) lavoreranno sotto l’esclusiva supervisione degli uffici per i media dell’Isis; 3) i giornalisti possono lavorare direttamente con le agenzie internazionali di informazione (come Reuters, AFP and AP) ma devono evitare tutti i canali Tv satellitari locali e internazionali. È vietato fornire loro qualsiasi materiale esclusivo (video o audio) e qualsiasi contatto in qualsiasi forma; 4) ai giornalisti è vietato lavorare in qualsiasi modo con i canali Tv inseriti nella lista nera dei canali che combattono contro i Paesi islamici (quali Al-Arabiya, Al Jazeera e Orient). Chi contravverrà sarà ritenuto responsabile. 5) ai giornalisti è concesso coprire eventi nel governatorato con testi o foto senza riferirsi agli uffici addetti ai media dell’Isis. Tutti i pezzi e le foto pubblicati dovranno essere firmati con il nome del giornalista o del fotografo; 6) ai giornalisti non è consentito pubblicare qualsiasi reportage (per stampa o trasmissione radio) senza prima fare riferimento agli uffici addetti ai media dell’isis; 7) i giornalisti possono avere il proprio account sui social media e sui blog per diffondere informazioni e immagini. In ogni caso, l’ufficio addetto ai media dell’Isis deve avere gli indirizzi e le coordinate di questi account e delle pagine dei blog; 8) i giornalisti devono conformarsi alle regole quando fanno foto dentro il territorio governato dell’Isis e evitare di filmare accadimenti o ambientazioni dove scattare immagini è proibito per motivi di sicurezza; 9) l’ufficio addetto ai media dell’Isis seguirà il lavoro dei giornalisti dentro il territorio controllato dall’Isis. Qualsiasi violazione delle regole sul posto provocherà la sospensione del giornalista dal proprio lavoro, e verrà ritenuto responsabile; 10) le regole non sono definitive e sono soggette a mutamenti in qualsiasi momento, a seconda delle circostanze e del grado di cooperazione fra i giornalisti e il loro impegno verso i fratelli dell’ufficio addetto ai media dell’Isis; 11) ai giornalisti verrà concessa una licenza per praticare il loro lavoro dopo avere sottoscritto una richiesta presso l’ufficio addetto ai media dell’Isis.
Sono delle regole dure per fare giornalismo. Se i tagliagola avessero un po’ di senso dell’umorismo si potrebbe dire che è tutto un Comma 22. Ricordate? «Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo». Invece, fa venire i brividi quel «sarà ritenuto responsabile» – che fanno, ti mozzano le mani, la lingua?
Ma sentite queste: 5b) Personal clothing will be subdued in color and appearance. Gli abiti dovranno essere dimessi, sobri, in colore e aspetto. 8) Il possesso o consumo di bevande alcoliche mentre si è embedded e si fa informazione non è autorizzato. 9) Il possesso di materiale pornografico mentre si è embedded e si fa informazione non è autorizzato. Suonano come raccomandazioni di fanatici islamisti. Invece, sono alcune delle Ground Rules, delle regole sul campo, del Combined Security Transition Command – Afghanistan (CSTC-A), insomma dell’esercito americano durante la guerra in Afghanistan. Ci hanno pensato e lavorato a lungo i vertici dell’esercito per costruire un rapporto con i media. È dalla guerra del Vietnam che ci pensano. Allora, le immagini e i reportage dal Sud est asiatico furono una denuncia continua delle atrocità degli americani e dell’inutilità di quella guerra, dello sconforto dei giovani soldati, della pazzia di molti ufficiali, e della sostanziale sconfitta. Furono, i media, una delle più potenti motivazioni per la forza di un movimento di opposizione contrario e per porre fine alla guerra. Insieme all’avanzata dei vietcong, certo.
Così, alla prima Guerra del Golfo di Bush senior, si iniziarono a praticare delle regole con i giornalisti. E quando, dopo l’11 settembre, si invase l’Afghanistan le regole si fecero più stringenti. Stavolta non sarebbe stato come in Vietnam. Intanto, iniziarono a circoscrivere concettualmente il processo di embedding: «The placement of media employees with military units is referred to in this Agreement as “embedding” or the “embedding process” and will require media employees to live, travel, eat, sleep, and conduct all professional and personal activities with the military unit to which the media employees are “embedded”». La collocazione degli addetti media con unità militari è riferito in questo Accordo come “embedding” o “embedding process” e comporterà per gli addetti media vivere, viaggiare, mangiare, dormire e condurre ogni attività personale e professionale con l’unità militare cui si è destinati. Intruppati. Embedding si può tradurre con intruppamento. Embedded con incorporato. I giornalisti vengono intruppati ai soldati. Ergo, devono seguirne la disciplina e le regole.
Sono sette paginette che vanno firmate ai margini di ogni foglio e alla fine, le 39 Ground Rules per il giornalismo embedded. Alcune suonano di buon senso, quelle più legate a operazioni di combattimento – come non usare flash o altri dispositivi luminosi –, altre sembrano pretestuose. In generale, c’è una attenzione ossessiva a “conformare” le notizie. Un esempio? Le comunicazioni via satellitare “autonome” del giornalista. Ai giornalisti non viene proibito l’utilizzo di telefoni cellulari e satellitari, ma il comandante dell’unità può imporre delle restrizioni per motivi di sicurezza. Nello stesso tempo, si prevede che in caso “di difficoltà di comunicazione delle linee commerciali i rappresentanti dei media sono autorizzati a inviare le loro storie attraverso il sistema di telecomunicazione militare”. Il punto 13 entra nel merito di alcune restrizioni: “Le unità possono imporre degli embargo (sulle notizie) per proteggere la sicurezza delle operazioni”. E sempre, sempre si parla di “revisione” delle notizie. Certo, per carità, nessuna manomissione dei contenuti di opinione dell’editoriale. Però, il controllo è necessario, si spiega, per evitare nomi errati, nomi sensibili, nomi fuori posto.
Ci ha fatto anche un lavoro di verifica, nel settembre 2004, il DoD, Department of Defense, su questa storia del giornalismo embedded, valutandone i pro e i contro. Si chiama Assessment of the DoD Embedded Media Program, e consta di 244 interviste a comandanti militari, responsabili delle Relazioni, direttori di media e giornalisti con esperienza di guerra, sul terreno, per mare o per cielo. Sembrano soddisfatti, i militari americani, dicono che il giornalismo intruppato è buono per il morale dei soldati e anche per quelli che sono a casa e la guerra la vedono in televisione. Da allora, le regole si sono fatte ancora più stringenti, man mano che i teatri di guerra si sono moltiplicati e i risultati si sono indeboliti.
Anche noi italiani ci abbiamo studiato su questa storia qua. È dal Libano che ci ragioniamo, quando tutto era ancora un po’ abborracciato però l’intervento dell’esercito raccolse un coro unanime e entusiasta per il lavoro che si svolgeva lì – militari italiani brava gente, Italy only sui muri di Beirut. Sembra un secolo fa. Poi, il Kosovo segnò una svolta. E anche il giornalismo italiano si è adeguato. I terribili episodi della Cutuli, della Sgrena e di Mastrogiacomo hanno fatto il resto. E poi, diciamolo, molti giornalisti italiani sono embedded in patria, neanche in zone di guerra. Sono embedded coi magistrati, con le banche, coi governi, con le massonerie. Sono embedded a prescindere.
Insomma, le regole dell’Isis ricalcano le Ground Rules dell’esercito americano. Certo, gli americani non ti tagliano la gola se fai un servizio sbagliato. E non è una differenza da poco. Il punto è un altro: come funziona su un giornalista in guerra, intruppato, il meccanismo di autocensura? Quanto è disposto a pagare, in termini di verità, per poter esser lì?
Cantlie dice una parte di verità, quando accusa i media occidentali di ossequiare le veline dei comandi militari americani.
Dice anche una parte di bugia, Cantlie. I freelance hanno pagato spesso con la vita il coraggio del loro mestiere. E lui, d’altronde, è uno di quelli. Secondo Reporters sans frontieres sono quarantatre i giornalisti uccisi dall’inizio del 2014 fino a settembre, otto i loro assistenti, dodici i bloggers e gli attivisti che lavoravano come giornalisti. Ci sono adesso centosettantotto giornalisti imprigionati nelle zone di conflitto, undici assistenti e centonovanta bloggers e attivisti ancora trattenuti. Una marea di gente.
Speriamo solo che tornino tutti presto liberi. Anche Cantlie, certo.

Nicotera, 30 ottobre 2014

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