«Qui si difesero fino all’ultimo, chi aveva ancora le spade combatté con esse, e gli altri resistettero con le mani e con i denti». Così, nelle Storie, Erodoto rende omaggio agli strenui combattenti spartani che alle Termopili provarono a fermare l’avanzata dell’Impero persiano. Un giorno qualcuno canterà la battaglia di Kobane, e racconterà l’eroismo di quegli uomini e quelle donne.
C’è una piccola folla di curdi raccolta intorno le colline, giusto qualche centinaio di metri dentro la Turchia – abbastanza vicino per sentire i colpi della battaglia, abbastanza distanti per stare al sicuro. Tra di loro, Bediar Gulkus, una donna di 48 anni, i cui due figli, una ragazza e un ragazzo, stanno combattendo a Kobane. «Lotteremo, anche se non abbiamo altro che pietre. Se aprono i confini, andrò io stessa, e mi farò saltare in aria».
Per i curdi della regione, Kobane è diventata molto di più che una battaglia per una città. Arrivano da ogni angolo della Turchia per cercare di unirsi ai combattenti che stanno resistendo. O per protestare contro l’inerzia del governo turco. E per chiedere aiuto alla comunità internazionale.
«Il confine – dice Leila Salman, una giovane donna di trent’anni che guida un campo di protesta e manifesta solidarietà con gli assediati – è solo un ostacolo geografico. Loro non possono mettere un confine nel mio cuore».
“Loro” sono i turchi che mandano carri armati solo per fermare i manifestanti, e non fanno nulla perché Erdogan vuole carta bianca dagli americani per fare fuori Assad, ma agli americani per ora interessa solo fermare il Gran Califfo dell’Orrore. “Loro” sono gli americani, che non possono bombardare ormai perché la battaglia è strada per strada, casa per casa, moschea per moschea, troppo ravvicinati i combattimenti per “l’intelligenza” dei droni, e si limitano a fare qualche incursione; l’ammiraglio John Kirby, del Pentagono, ha detto crudamente in una conferenza stampa recente: «Dobbiamo prepararci alla realtà che altre città e villaggi, e forse Kobane, saranno presi». “Loro” siamo noi.
Quando è il momento dei curdi, tutti al mondo chiudono gli occhi. I curdi, però, non sono ciechi.
«Noi popoli che viviamo nelle Regioni Autonome Democratiche di Afrin, Cizre e Kobane, una confederazione di curdi, arabi, assiri, caldei, turcomanni, armeni e ceceni, liberamente e solennemente proclamiamo e adottiamo questa Carta». È il primo capoverso della Carta del contratto sociale del Rojava. Che prosegue: «Noi, popoli delle Regioni Autonome, ci uniamo attraverso la Carta in uno spirito di riconciliazione, pluralismo e partecipazione democratica, per garantire a tutti di esercitare la propria libertà di espressione. Costruendo una società libera dall’autoritarismo, dal militarismo, dal centralismo e dall’intervento delle autorità religiose nella vita pubblica».
Se si vuole capire perché il Gran Califfo dell’Orrore vuole distruggere Kobane, bisogna partire da qui. Lasciate perdere lo scontro di civiltà, lasciate perdere la faglia di frattura dell’islamismo, tra sunniti e sciiti. La Carta del Rojava è un testo che parla di libertà, giustizia, dignità e democrazia; di uguaglianza, di partecipazione paritaria a ogni istituzione sociale. Parla di autogoverno, tra mille contraddizioni e condizioni durissime, e esprime un principio di cooperazione, tra liberi e uguali. Parla di rifiuto del patriarcato. Parla di rifiuto della teocrazia e di ogni fondamentalismo religioso, e di ogni assolutismo etnico, e dello stesso nazionalismo.
La regione autonoma del Rojava emerge dalla tragedia della rivoluzione siriana. Al contrario delle situazioni circostanti, Rojava ha non solo mantenuto la propria indipendenza ma è uno straordinario esperimento democratico. Assemblee popolari sono state istituite come luoghi di decisione, i consigli sono stati selezionati con attenzione all’equilibrio etnico (a esempio, in ogni municipalità i tre dirigenti sono un curdo, un arabo, un assiro o un armeno cristiano, e almeno uno dei tre deve essere donna), ci sono consigli delle donne e dei giovani, e una milizia femminile, la “YJA Star”, dove la stella si riferisce all’antica divinità mesopotamica Ishtar. Ishtar era la divinità dell’amore, della fertilità e della sessualità. Era anche la divinità della guerra. Una buona parte delle operazioni di combattimento contro l’Is del Gran Califfo è stata condotta dalle miliziane della “YJA Star”. Miliziane come Ceylan Ozalp, una ragazza di diciannove anni, sulla prima fila di fuoco, che ha tenuto per sé l’ultima pallottola. O come Arin Mirkan, madre di due figli, rimasta senza munizioni, che si è lanciata addosso al nemico con una cintura di esplosivo e si è fatta saltare in aria. Quattordici ne ha ammazzati, Arin, e gli ha distrutto un mezzo corazzato.
Se si vuole capire perché il Gran Califfo dell’Orrore vuole distruggere Kobane e perché Erdogan non muove un dito bisogna partire da qui. Dalla svolta politica del Pkk di Abdullah Ocalan, rinchiuso in una cella del carcere di un’isola di cui hanno buttato la chiave, per una storia del piffero dove noi italiani non ci abbiamo fatto proprio una gran figura. La svolta anti-statalista e anti-nazionalista del Pkk passa verso un “municipalismo libertario”, qualcosa che richiama esplicitamente lo zapatismo del Chiapas. È anche da questa svolta che nasce la Carta del Rojava.
E la battaglia di Kobane.
Ogni secolo ha le sue Termopili. Ogni secolo ha la sua guerra civile di Spagna. Da una parte c’è sempre un Impero; dall’altra ci sono le libere città.
Come ha detto Bediar Gulkus, quella donna i cui due figli stanno combattendo: «Kobane è il nostro sangue, la nostra anima».
Nicotera, 10 ottobre 2014