Nella cinematografia del periodo messicano di Luis Buñuel – in Messico c’era finito in esilio, dopo la vittoria del franchismo sulla repubblica –, fra gli altri, c’è Simon del deserto, che con Nazarin e Viridiana, forma una sorta di trilogia: sono strane figure di “santi”, lacerati tra l’intransigenza di una morale cristiana e la terrena carità verso gli ultimi. Viridiana, per dire, doveva entrare come novizia in convento, poi si scontra con lo zio, che muore, e lei riceve in eredità il suo meraviglioso palazzo dove fa entrare i poveri del villaggio, raffigurati a un certo punto come l’Ultima cena, prima di abbandonarsi a una bolgia. Nazarin è un giovane sacerdote che vive deliberatamente in estrema povertà, mettendo in pratica i principi evangelici che non sembrano produrre alcun risultato positivo. E l’incompiuto, per problemi di produzione, quasi metà del film non fu girato, Simon del deserto trasporta l’asceta ossessionato dal diavolo dal quinto secolo alla pagana bolgia newyorkese, dove lo si vede muto e assente.
Simon del deserto si richiama a una figura religiosa e storica reale – ne scrisse persino Gibbon in Caduta e declino dell’Impero romano –, Simeone lo Stilita, detto il Vecchio per distinguerlo dal Giovane, che visse in una zona più o meno riconducibile alla parte settentrionale dell’odierna Siria, tra il quarto e il quinto secolo dopo Cristo. Era detto lo Stilita, perché visse su una colonna per trentasette anni. Altri asceti e monaci seguirono il suo esempio, e furono detti, appunto, stiliti. È inquietante e affascinante insieme pensare un territorio punteggiato di colonne – come fossero vedette dell’anima, del bene contro il male – su cui pregano e si genuflettono e restano assorti degli uomini. Guardano il deserto, come il giovane tenente Drogo alla Fortezza Bastiani. Questo aspettava i tartari, quelli il diavolo. Così lo mostra Buñuel, su una colonna nel deserto. Non dev’essere facile vivere per trentasette anni su una colonna, per quanto asceta e santo tu possa essere. Ma non dev’essere facile neppure vivere per tanti anni alla stazione di Palermo, e distribuire thermos di the e latte caldo, la notte, agli ultimi degli ultimi della terra. Eppure questa è la storia di fratello Biagio.
Una storia che inizia dal distacco dagli agi di una vita borghese, in un pellegrinaggio verso i monti e i deserti della Sicilia interna, poi verso il poverello d’Assisi. Vuole andare in Africa il giovane Biagio, a aiutare i poveri e gli affamati. Forse è san Francesco a consigliargli di tornare a casa, che poveri e affamati a Palermo non sarebbero mai mancati. E così Biagio fa.
La Missione di Speranza e Carità fondata da fratello Biagio ha ormai vent’anni. Oggi può contare su tre comunità, due centri di accoglienza per emarginati, immigrati, senza dimora, ex detenuti, e uno per le donne, ragazze madri o in cerca di riparo. In tutto, qualcosa vicino a mille persone. C’è inoltre la Missione notturna, lì dove tutto è cominciato, il servizio in giro per la città, a portare una coperta o un latte caldo. Senza mai nulla chiedere, sempre pronti a dare. I volontari preparano e distribuiscono qualcosa come più di duemila pasti al giorno. È una straordinaria opera di carità che conta solo sull’aiuto volontario di centinaia e centinaia di professionisti, artigiani, gente qualunque che presta il proprio aiuto e, spesso, i propri mestieri. I luoghi di accoglienza erano strutture abbandonate – enormi edifici appartenenti all’arma dei Carabinieri, all’Aviazione o al Demanio – e diroccate, che con fatica, battaglie, e tanta assistenza sono state ristrutturate e messe in ordine. Biagio è diventato uno squatter, insomma. Anche la Chiesa – a cominciare dal compianto cardinale Pappalardo, e chi gli è succeduto – lo ha aiutato, e la Regione e il Comune, che quanto meno provvedevano alle utenze – acqua, luce, gas. Almeno sinora.
A raccontarla così sembra un’impresa faticosa ma in discesa.
Invece, spesso e malvolentieri, Biagio ha dovuto fare digiuni, proteste, per ottenere cose minime che la burocrazia spesso gli negava o per respingere spese che risultavano insostenibili e assurde.
Adesso, qualcuno gli ha presentato il conto. Riscossione Sicilia chiede 84.447,57 euro nell’ultima cartella esattoriale notificata.
Raccontano che la fama di Simeone lo Stilita si era talmente diffusa per l’Impero bizantino che persino l’imperatore seguiva i suoi consigli. Una delegazione della Chiesa fu inviata per chiedergli di scendere dalla sua colonna in segno di sottomissione. Se non avesse obbedito, sarebbe stato un gesto di orgoglio da condannare. Simeone invece mostrò con umiltà la sua disponibilità a scendere, e questo bastò perché la richiesta restasse lettera morta.
Fosse nato a Roma, Biagio, non avrebbe avuto che l’imbarazzo della scelta: ci ha disegnato la città, Sisto V, con i suoi obelischi. Sarebbe potuto salire su quello di piazza del Popolo e appollaiarsi là; oppure a san Giovanni in Laterano o a Santa Maria Maggiore. Invece a Palermo non lo puoi fare lo Stilita, perché colonne non ce ne sono. Ci sono le cupole, quelle sì: e Biagio poteva pure mettersi su san Giovanni l’Eremita. Oppure i cubi, arabi e normanni, ma pure che ti metti sopra la Zisa, non è lo stesso effetto. Così, fratello Biagio ha scelto la montagna. S’è messo una croce di legno sulle spalle e è salito su monte Grifone, che lo puoi vedere pure da Brancaccio. Non è un gesto di orgoglio, o forse pure sì. Però, di sicuro è un gesto di sconforto.
Si potrebbe fare un pellegrinaggio, tutti insieme, verso monte Grifone. Forse lo scocceremmo a fratello Biagio, che vuole stare per conto suo a pregare il suo Dio. Un po’ come si scocciava Simeone lo Stilita, che stavano sempre lì, tutti sotto la sua colonna, a chiedere questo e quello.
Forse potremmo dirgli a Biagio che le cartelle esattoriali non contano nulla. Che l’obbedienza devi tenerla nel tuo cuore e nella tua fede verso gli uomini e verso Dio, se ce l’hai.
Che potrebbe essere lui, fratello Biagio, a mostrarci come a volte la disobbedienza civile sia una strada verso il prossimo e verso un Dio.
Nicotera, 11 settembre 2014