Una notte di tanti anni fa – era il novembre del 1975 –, un ragazzetto di borgata che faceva marchette dove capitava, uccise in un campetto squallido di Ostia il più controverso e scomodo degli intellettuali italiani. Nessuno voleva accettare l’idea che Pasolini potesse essere morto in quel modo assurdo, e in una maniera così brutale. Si parlò di una squadra di assassini spietati. Di killer assoldati per mettere a tacere la voce più lucida contro il potere. Si parlò del suo brogliaccio di libro, in cui c’era scritto, nero su bianco, la verità su cinquant’anni di schifezze del potere – e proprio per quello l’avevano messo a tacere. Si parlò del suo famoso articolo in cui accusava il sistema democristiano di essere dietro le stragi che avevano insanguinato l’Italia – «Io so. Io so i nomi dei responsabili» – e proprio per quello l’avevano messo a tacere. Ogni indizio, anche il dettaglio più macabro, venne enfatizzato per sostenere l’ipotesi di una molteplice presenza di persone. Doveva esserci per forza un complotto dietro l’omicidio di Pasolini. Pasolini non poteva essere morto perché lo voleva mettere nel culo a un ragazzetto di borgata che non aveva nessuna intenzione di farsi sfondare – non era quello l’accordo, tacito o esplicito che fosse stato, tu sei frocio, sei tu che lo pigli nel culo. Pelosi, il ragazzetto di borgata, non aveva potuto fare tutto da solo. Col tempo se ne convinse pure Pelosi.
Non riusciamo a rassegnarci che le cose accadono sotto i nostri occhi proprio come le vediamo. Immaginiamo che ci sia sempre una quinta di teatro, che la storia sia una tela di ragno, che ogni tassello rimandi a un altro tassello fino a incastrarsi in un disegno logico e compiuto. Come se la vita quotidiana e la storia fossero agite da un’entità superiore, dal Logos, se non da Dio o dal Diavolo, e non piuttosto dalla nostra stessa miserabilità e grandiosità di uomini. Non ci diamo pace che un grand’uomo possa morire per un raffreddore, per un’ulcera non curata, per un’indigestione – che Alessandro Magno, il grande conquistatore, sia morto di cirrosi. Che Marco Pantani, il Pirata, il conquistatore del Tour, sia morto strafatto, come un tossico qualunque, sperduto in una stanza d’un motel. Noi, uomini qualunque, possiamo morire per uno scivolone dalle scale, perché non ci fermiamo a uno stop, per uno sbaglio nell’afferrare la boccettina dei medicinali. Ma non un grand’uomo. Come se la pasta di cui è fatto un grand’uomo fosse poi tutt’altra dal fango con cui Dio ci creò tutti uguali. Forze oscure devono agire. Forze esoteriche, riconducibili al sovrumano. I Templari, gli Illuminati, gli Incappucciati. La Cia, il Kgb – benché oggi si chiami in tutt’altro modo. Un tempo gli uomini immaginavano le loro azioni ispirate dagli dei, Venere, Giove, Marte, Apollo, e dalle loro beghe. Chissà, magari l’Olimpo era un po’ più fantasioso della Cia.
È una deriva della lucidità razionale del Novecento. Il Novecento è stato il secolo delle più grandi conquiste della scienza umana, compiendo salti che prima la storia ci metteva secoli per compiere, la storia lunga di Braudel infilata a forza nel secolo breve di Hobsbawm. E è stato pure il secolo in cui l’umanità si è massacrata senza senso in modo massiccio. Quest’anno ricorre il centenario di quell’orrendo macello che fu la Prima guerra mondiale e ormai tutti gli storici concordano sul fatto che nessuno la voleva ma tutti insieme ci si arrivò. Bastò un colpo di pistola, dello studente Gavrilo Princip. Nessun complotto, nessun marchingegno politico e militare a tempo messo a punto da questa o quella potenza. Solo Gavrilo Princip.
Proprio questo fa orrore, forse. Pensare che un massacro dell’umanità sia accaduto senza che nessuno lo avesse messo in conto, senza che nessuno si sia provato a fermarlo, correndo tutti – alla guerra, alla guerra – verso il precipizio come topi dietro il piffero di Hammelin.
Fa orrore, forse, pensare che la storia sia banale, e agita spesso, troppo spesso, da passioni umanissime, ambizioni, gelosie, invidie, da tic e da fissazioni, da paranoie, e che non c’è nessun Gran Burattinaio. Nessun Grande Vecchio. Ci abbiamo messo vent’anni – e c’è ancora chi non ne è convinto – che a uccidere Moro siano stati proprio le Brigate rosse, che si erano allenati nel cortile di casa a sparare.
Il Gran Complotto in qualche modo ci solleva dalle responsabilità. Allevia la nostra impotenza quotidiana. Fare la storia esula dal tran tran di tutti i nostri giorni. Anche fare la politica.
Il Novecento è stato il secolo della politica. Si è vissuta politica come il modo di agire il mondo e mettergli ordine. Ciascuno poteva partecipare a quell’enorme sovrumana azione del mettere ordine nel mondo. La politica – schierarsi, appartenere, tesserarsi, leggere, andare alle riunioni, partecipare alle assemblee, compiere gesti legati a un progetto – era il dispositivo semplice con cui ciascuno metteva ordine nel mondo. Perché c’era già un “sistema” e si trattava di rovesciarlo e rimetterlo con i piedi per terra. Questa straordinaria fiducia nell’agire – che era passione e ragione insieme – è venuta meno. Certo, c’è ancora la politica, ma è tutt’altra cosa, è un’attività per specialisti.
Chissà, forse è un bene che sia così, che insomma ci siano degli addetti, come per riparare i guasti dell’ascensore, o le perdite di un rubinetto. Tutto diventa più trasparente: tu chiami, fanno il lavoro, emettono fattura.
Solo i commentatori e i notisti politici non si danno pace, e lo si capisce, il loro lavoro diventa superfluo, quale manovra devi spiegare, quale sotterfugio c’è da rendere esplicito, se tutto è una palese prestazione di servizio? Se tutto è amministrazione?
E allora, inventano patti, accordi sottobanco e sottaciuti, complotti innescati con tessere di domino. E chissà Renzi e Berlusconi, e chissà cosa si saranno promessi al Nazareno?
Allevia tutto questo, molto. Perché mentre inseguiamo i misteri e i segreti del patto clandestino, le trasformazioni accadono sotto i nostri occhi, e sono proprio quelle che possiamo vedere.
Nicotera, 4 agosto 2014