Domenica e lunedì, si vota e si rivota: ma la democrazia è ormai senza cuorum

elezioni_comunaliDomenica e lunedì si vota in 142 comuni in Sicilia e si va al ballottaggio in 67 comuni, città importanti come Brescia e Siena, prima fra tutte Roma. L’attenzione a Roma è sembrata soprattutto concentrarsi su dove finiranno i voti di “Arfio” Marchini e di De Vito [del 5 stelle], e se Marino riuscirà a mantenere il suo distacco da Alemanno; per la Sicilia — si vota a Messina, Catania, insomma, non proprio paesini —, tutti i commentatori lo prendono come un test sulla tenuta del Movimento 5 stelle e sul trend vincente del Pd. Tutto qui.
Il fatto che nella tornata precedente — e già alle elezioni regionali in Sicilia e in Friuli — l’astensionismo abbia raggiungo il cinquanta per cento, cioè che ormai uno su due degli aventi diritto al voto abbia deciso, almeno sinora, di non partecipare alle elezioni è passato in secondo piano, come fosse un dato antropologico [tipo: “al sud storicamente si vota poco”, il che peraltro, numeri alla mano, non è vero, sin dal referendum sulla repubblica] o sociologico [tipo: “la distanza tra cittadini e politica”].
È difficile non mettere in relazione il rinnovato dibattito sul presidenzialismo [o semi, come il semifreddo] con una corsa ai ripari della politica. Preso atto che questo “blocco astensionista” — che non è un blocco ideologico, e si mostra molto fluido, in entrata e uscita — sembra un dato politico assestato, un political divide, tanto da mettere in crisi ogni possibilità di governo solido, tanto vale governare in totale delega verticista. È questo, dell’astensionismo, il “motivo” che impedisce la proclamazione di un vincente, non la legge elettorale o il bicameralismo perfetto, perché le percentuali di astensionismo modificano, rendono “relativo” ogni volta il quadro delle percentuali dei voti raccolti.
Solo che questa forza politica astensionista mette in crisi qualcosa di più della rappresentanza politica e dei suoi meccanismi. Mette in crisi la legittimità politica stessa del mandato elettorale. Cosa e chi rappresenta un qualunque sindaco eletto con una percentuale di voti, rispetto il totale dell’elettorato, che si aggira intorno al venti per cento? Quale mai può essere la sua legittimità politica? E quale quella di un governo, sempre di “minoranza”?
Bisognerebbe introdurre — è un modesto suggerimento al gran consesso dei saggi — una semplice regola: se non si raggiunge la metà più uno degli aventi diritto al voto, ogni elezione è da considerarsi nulla. Dovrebbe essere una banalità fisiologica, questa: tanto quanto il principio che chi prende più voti ha diritto di governare.
Non siamo gli Stati uniti, il più potente impero mai regnante nella storia dell’uomo, retto da un signore che prende circa il venti per cento dei voti: diversi i meccanismi di regolazione e di controllo, di mobilità sociale, di partecipazione, di “peso” di tutto ciò che non è politica ma influenza direttamente la vita dei cittadini. Nella nostra storia, europea, il senso vitale della politica e dei partiti è invece ineludibile.
In questo senso, il Porcellum è doppiamente odioso, sicuro, rispetto il carattere decostituente dell’astensionismo. Ma se non si prende atto che l’astensionismo è una forza costituente, una richiesta potente di un nuovo quadro costituzionale, di un rinnovamento della politica [che non è la rottamazione dei partiti o dei suoi leader], qualsiasi progetto — hai voglia a infilare saggi nel team scritturale — di modifica della costituzione avrà solo un segno di esautoramento ulteriore della democrazia.
Una democrazia senza quorum è anche una democrazia senza cuore.

Nicotera, 7 giugno 2013

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