Il 14 dicembre 2010 mentre nel Palazzo — barricato in se stesso, nei suoi riti bizantini e nella sua sopravvivenza a ogni costo — si consumava un atto vergognoso di “fiducia” con la compravendita di parlamentari, fuori migliaia di manifestanti assaltavano il parlamento. Si rappresentava così, visivamente, una rottura, un abisso tra paese reale e politica. Il folklore dello scilipotismo — e di converso il moralismo, il politicismo, l’accanimento contro questa o quella parte — prevalse invece nella descrizione e nella riflessione di quei momenti drammatici del paese, come se i problemi fossero sempre quelli posti dalle classi dirigenti, e non quelli avanzati dalle classi subalterne.
Poi, il 15 ottobre 2011 a San Giovanni una manifestazione finiva in un tumulto e in violenze esasperate. Anche qui, per giorni, prevalse il “colore del reportage”, le madonnine spezzate, i giovanissimi coattelli della suburra romana che nessuno controllava, l’emblematica figura di “er Pelliccia”, il ragazzo che aveva lanciato un estintore e poi si era clamorosamente pentito del suo gesto, le chiacchiere sui black bloc e la violenza: i profondi intellettuali lanciarono un sospiro di sollievo e rassicurarono i politici, se la rivolta era d’er Pelliccia potevano stare tranquilli. A ogni buon conto, per l’uno e l’altro episodio si comminavano decine di anni di galera.
Questi momenti sono stati i nostri Zuccotti Park — tranne, ovviamente, per chi dall’Italia a Zuccotti Park c’abbiamo mandato, Saviano — e le nostre Puerte del Sol, i nostri occupy e i nostri indignados, perché così è l’Italia, e non è detto che sia proprio un male. Nel frattempo, ci sono state centinaia di suicidi da produzione — ma sì, in fondo non sono poi tanti, stiamo nelle statistiche e poi mica come in Grecia —, gli assalti col fucile e i tantissimi gesti di rabbia contro l’agenzia delle entrate, centinaia di aziende smantellate, vite gettate sul lastrico. Operai che continuano a volare dalle impalcature.
Ora quegli stessi [qua i nomi si sprecano] che hanno irriso alla “retocrazia” e al potere taumaturgico dei social network, ma li avevano esaltati durante le rivolte in Tunisia e in piazza Tahrir come l’elemento di novità rivoluzionaria — perché il “colore” lì era quello —, scoprono [Michele Serra sembra davvero affaticato, esita nella transumanza dall’innovativo e rivoluzionario dopofestival di Sanremo al dopoelezioni] la “rivolta generazionale” dei grillini, i trenta–quarantenni che sarebbero resti indietro, come fosse solo un problema di ricambio e gli adulti, fattisi un po’ più compassionevoli, dovessero ascoltare e dare buoni consigli, insomma il dialogo se po’ fa’. È un modo per ridurre la portata delle trasformazioni in corso, degli smottamenti, dei disastri, delle necessarie epocali decisioni di cambiamento.
La stessa profonda stupidaggine che ripetevano [altri, più pensosi] come un mantra nella rivolta del Settantasette — sono solo studenti, fuori corso, fanno lavoretti, seconda società marginale, che cade fuori del perimetro del “lavoro operaio” e della “democrazia costituzionale” dei partiti — senza accorgersi di quali profonde mutazioni stesse vivendo proprio il lavoro, la fabbrica, la produzione, la distribuzione, il credito, l’innovazione scientifica. Lì il reportage di colore lasciò il posto ai mattinali di polizia, alle infamie aperte, all’incitamento all’odio e alla persecuzione. Lì, gli anni di carcere furono secoli, sepolture a vita.
Non leggo i fondi di caffè e i depositi della storia. E non so cosa abbia votato er Pelliccia. Chiedo solo di ricondurre la riflessione d’oggi alla materialità delle questioni, alle faglie profonde, concrete, e non alle buffonerie, alle iperboli, agli stupori, alle sorprese, alla semplificazione. E questo ci porta a parlare di lavoro, di impresa, di cooperazione, di credito, di denaro, di occupazione, di reddito. Di bisogni e desideri. Qui stiamo, non nell’arrovellarsi sulla formazione di un governo o sulle mosse giuste della politica. Che pure serviranno, certo. Ma a cosa servirebbero se non discutiamo di quell’altro?
È un momento straordinario per il paese: non siamo la Grecia, non siamo il Belgio, non siamo l’Islanda, siamo l’Italia. In questo momento — ma non è forse il nostro “destino”, nel bene e nel male? — un “laboratorio politico a cielo aperto”: non una sentina maleodorante di prodotti di scarto cinesi, non un’azienda ipertecnologica dove ti spacciano la carne di cavallo nelle polpette. E scusate se è poco. Un paese vivo, preoccupato, incazzato. Sovrano.
Lasciateli perdere gli intellettuali, come gli economisti non ci hanno capito un cazzo di crisi e di economia, questi non capiscono un cazzo di politica.
Nicotera, 28 febbraio 2013