All’inizio pensano che siano spari nel film, che lì sullo schermo Batman e i cattivi si stiano rincorrendo per le strade di Gotham City e facciano ricorso alle armi. Bam bam bam. La tecnologia dei cinema americani – le poltrone si possono inclinare come si crede, il suono ti avvolge, tutto intorno e sotto di te vibra se ci sono terremoti sullo schermo, e avverti anche gli odori, il fumo, per dire – può così fedelmente riprodurre la realtà da ingannare. Invece in fondo alla sala c’è un uomo con una maschera antigas che ha tirato dei lacrimogeni e adesso spara con un fucile mitragliatore.
Negli anni Cinquanta, per lanciare i film di fantascienza – quelli con i formiconi o i baccelloni, che dovevano rappresentare il nemico alieno e possibile, i rossi, i comunisti –, prendevano i costumi di scena, con le antenne in plastica e le chele e le code e tutto, e li facevano indossare a una comparsa e la piazzavano davanti al cinema a terrorizzare e meravigliare i bambini, gli adulti no, loro la sapevano lunga, avevano capito la metafora. Stavolta non è un costume di scena, non è un revival. Quello spara davvero – non mira, spara dove capita –, uccide davvero, si muore davvero. Il sangue non è pomodoro. Chi può fugge dal cinema, chi ce la fa scappa, proprio come nelle scene di Blob, la materia mostruosa che esce dallo schermo e invade la sala, urlando, calpestandosi. Columbine High School – uno dei più terribili episodi di strage insensata americana – è diventato prima un documentario di Michael Moore e poi un film di Gus Van Sant, Elephant. Dalla realtà alla finzione, al plot, all’estetizzazione. Qui, a Denver, Colorado, è la realtà che irrompe nella finzione, è il ritorno della materia, del blob fattasi uomo. L’orrore ritorna come un film, estetizzato.
Come in It, di Stephen King, il nuovo mostro indossa una maschera e colpisce i bambini, che insieme ai neri sono il grande pubblico dei cinema americani – Woody Allen lo mandano da noi, in Europa, per dire –, quello dei blockbusters, quello di Batman. Quello dei gadget e di tutto il merchandising che può ruotare intorno a un film simile. Decretandone il successo commerciale. E l’insediamento nell’immaginario.
Tutto l’immaginario dell’occidente si costruisce lì, in America; tutto l’immaginario dell’occidente implode lì, in America. Il nemico è tra noi. La politicizzazione del nemico islamico, del fondamentalista con l’asciugamano in testa non è riuscita. Persino la sua spettacolarizzazione non è riuscita – quelle dichiarazioni di Bush dalla portaerei, come fosse Mac Arthur che portava a casa la resa dell’imperatore Hirohito. Gli Americani si interrogano sulle cose: Eastwood gira due film che sono uno, Flags of our fathers e Letters from Iwo Jima, guarda alla guerra come un marine e poi guarda alla guerra come un ufficiale nipponico. La guerra è orribile, gli uomini sono coraggiosi e meravigliosi. Abu Ghraib, l’orrore spettacolarizzato, con la foto del torturato, incappucciato e quasi crocifisso, ha lasciato il segno. Il nemico non è più lontano. Guantanamo, che sia stato chiuso o no, è un fallimento, morale, politico, investigativo: un giovanotto islamico, però svedese, che viene da Guantanamo e ha un passaporto americano, compie una strage di israeliani in Bulgaria. Come a fai a riconoscerlo, se la sua biografia sembra quella di Zlatan Ibrahimovic, ex stella del Milan e ora del Paris Saint Germain? L’orrore è tra noi – e non è una quinta colonna, è figlio dell’impazzimento generale –, siede qualche fila più dietro.
Sinclair Lewis, lo straordinario, e poco amato dai connazionali, scrittore americano, alla cerimonia della consegna del Nobel, disse: «Gli Stati Uniti sono il più contraddittorio, deprimente, emozionante Paese al mondo oggigiorno». Era il 1930, un secolo fa. È vero ancora oggi.
Nicotera, 20 luglio 2012
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