Vincere ai calci di rigore.

Dopo Wembley, sembra che l’Italia abbia trovato il nuovo “modulo” per vincere: niente 4-3-3, niente 4-5-1, niente tiki-taka e possesso palla, niente corse sulle fasce e cross, niente catenaccio, niente ripartenza: la chiave per vincere è arrivare ai rigori. Parafrasando Lineker («Il calcio è un gioco semplice: 22 uomini rincorrono un pallone per 90 minuti, e alla fine la Germania vince») potremmo dire oggi: «Il calcio è un gioco semplice: 22 uomini rincorrono un pallone per 90 minuti e non vince nessuno, si va ai rigori e vince l’Italia». Questa è l’euforia nazionale. In realtà, noi ai rigori finora avevamo (quasi) sempre perso.
Gli anni Novanta furono una tragedia calcistica, in questo senso. La maledizione inizia nel 1990. Era il Mondiale di casa, quello delle Notti magiche firmate Totò Schillaci. Anche quel giorno, in effetti, Totò aveva segnato, al San Paolo, il gol dell’1-0 nella semifinale contro l’Argentina campione del mondo in carica. Al 68’ però, su un cross spuntò la testa bionda di Caniggia mentre Walter Zenga andava a farfalle. Pareggio e tempi supplementari. Poi, si andò ai calci di rigore: segnarono – alternativamente – Baresi, Serrizuela, Baggio, Burruchaga, De Agostini e Olarticoechea. Sul risultato di 3-3 toccò a Donadoni ma la sua conclusione venne parata dal portiere argentino. Il quarto rigore albiceleste lo batté Diego Maradona che ovviamente la buttò dentro. Il tiro decisivo fu dunque quello di Serena che però si fece respingere il rigore. L’Italia restava a piedi.
A Pasadena, America, nel ’94 fu ancora peggio, perché eravamo in finale contro il Brasile e dopo 90 minuti il risultato era stato zero a zero e dopo i supplementari uguale. Era il primo mondiale che si decideva ai rigori. L’Italia calcia prima e inizia male. Capitan Baresi manda il pallone sopra la traversa, Pagliuca neutralizza la conclusione di Marcio Santos, Albertini segna, Romario pure, Evani tiene l’Italia avanti, l’implacabile Branco non sbaglia, Taffarel respinge il tiro di Massaro, Dunga trasforma: è il 3-2 che sarà definitivo, perché Baggio, il Divin Codino che ci aveva portato fin lì, sistema il pallone e calcia alle stelle. Bruno Pizzul con mestizia dice: «Il Campionato del mondo è finito, lo vince il Brasile ai calci di rigore, gli azzurri non meritavano di perdere così». Già, ma ormai la maledizione incombe.
E si ripete nel ’98. Francia, Parigi, stadio Saint Denis, proprio contro i padroni di casa: quarti di finale. La partita finisce dopo i supplementari a zero a zero, si va ai rigori. E noi sappiamo già come finirà, perché non c’è due senza tre. Per i francesi sbagliò soltanto Lizarazu e andarono a segno Zidane, Trezeguet, Henry e Blanc. Tra gli azzurri, sbagliarono Albertini e Di Biagio che prese la traversa nel tiro decisivo. E che potevi dirgli, pover’uomo? Tre competizioni mondiali di fila, fuori ai rigori.
Perciò, direi – stiamo calmini. La dea Eupalla ci ha solo restituito ciò che ci aveva tolto – che, lo sappiamo tutti, i rigori sono una tombola. Ma è interessante dare uno sguardo all’Italia degli anni Novanta, perché se quella è la maledizione calcistica che abbiamo sfatato a Wembley, spalancandoci un futuro luminoso, beh, da lì dobbiamo ripartire.
E l’Italia degli anni Novanta è tutta un rigori sbagliati. Cominciamo dalla “svolta della Bolognina”, 1991. Il muro di Berlino è caduto – i comunisti vanno a congresso. Può essere la grande svolta socialdemocratica, socialista riformista, che in molti si augurano. Il “più grande Partito comunista d’Occidente” che si fa socialista, elabora la caduta del muro cercando di salvare gli ideali di quel pezzo di Novecento dalle sue stesse tragedie – non era forse una finale ai rigori, questa? E invece. La Bolognina si trasforma in un dramma di autocoscienza, la nostalgia della bandiera rossa che trionferà fa premio su tutto, le fazioni interne si coalizzano contro il segretario Occhetto – e le sue lacrime saranno proprio come quelle di Baggio ai Mondiali ’94. Umanissime. Ma tanto, la maledizione incombe anche su Occhetto.
La riforma della legge elettorale in senso maggioritario seguì la stessa sorte. Il referendum abrogativo si tenne il 9 giugno del 1991 e ebbe a oggetto la porzione della legge elettorale che consentiva all’elettore di esprimere, in occasione delle elezioni politiche della Camera dei deputati, fino a tre preferenze: la disciplina di risulta avrebbe così permesso l’espressione di una preferenza unica. In realtà, i quesiti referendari depositati da Mariotto Segni erano tre, ma la Corte Costituzionale approvò solo quello sulla preferenza unica. Dai partiti di governo, l’ostilità era aperta. Craxi invitò a andare al mare, De Mita sparava a palle incatenate, eppure – qualcuno disse che, anzi, proprio per questo – si raggiunse abbondantemente il quorum (62,50 percento di votanti) e il SI stravinse (95,7 percento). Ma non era cambiato molto, si era passati solo alle finali. Tanto più che il 18 aprile 1993 ci sono otto quesiti referendari, tra cui uno per l’abolizione di parti della legge per il Senato, e c’è un’affluenza del 77 percento e vincono i SI con l’82,7. E la finale avvenne il 18 aprile del 1999. Il referendum è promosso sempre da Segni e da Antonio Di Pietro. L’aspettativa è grande. Agli elettori, viene chiesto se eliminare la quota proporzionale prevista nel sistema elettorale o meglio se cancellare il voto di lista per l’elezione del 25% dei deputati. Il SI raggiunge il 91,5%, ma i votanti si fermano al 49,6% e non bastano per l’approvazione. Non si raggiunge il quorum per 150mila voti, un’inezia. Ai rigori, il sistema elettorale in senso maggioritario è fallito. La “stagione referendaria” finisce. Segni è distrutto, proprio come Di Biagio dopo la traversa al Saint Denis. La maledizione imperversa e prenderà poi le sembianze del Porcellum.
E infine, come definire la “discesa in campo” di Berlusconi se non un rigore mancato? Quando nel 1994 appare il suo messaggio pre-registrato di nove minuti e venticinque secondi a tutte le televisioni, le parole-chiave saranno: “rivoluzione liberale” e “meno tasse per tutti”. Non solo, ma Berlusconi – che è il patron del Milan delle meraviglie, che vince senza bisogno dei calci di rigore – si “appropria” della vittoria azzurra ai Mondiali del 1982: Forza Italia è il nome della sua creatura politica, proprio un urlo da spalti, un richiamo esplicito a quell’orgoglio nazionale. E che, l’Italia – dove imperano lo statalismo, il posto pubblico, il clientelismo e il nepotismo, dove nessuno si assume il rischio imprenditoriale ma si vive di “nicchie” di debito pubblico – non avrebbe proprio bisogno di una rivoluzione liberale? Il canto di queste sirene liberali attira gli intellettuali, i Lucio Colletti, i Piero Melograni, i Saverio Vertone, i Marcello Pera – i popperiani e i delusi di sinistra insieme. Non andò così. Berlusconi finì col distribuire dentiere gratis e allearsi col partito più statalista che c’era, l’Alleanza nazionale di Fini, poi finì male pure quella. L’Italia è rimasta senza rivoluzione liberale.
Insomma, gli anni Novanta – quelli della maledizione dei rigori sono anche quelli delle occasioni mancate. Nel 1994 ufficialmente finisce la Democrazia cristiana, dopo cinquant’anni di dominio politico, per l’effetto di Tangentopoli, ma, a quel che sembra, siamo diventati tutti democristiani.
Perciò, nello sperare che i rigori sagnati a Wembley si trasformino in una nemesi sociale – possiamo sognare un partito davvero socialdemocratico, una riforma elettorale che sia fatta con tutti i criteri, una rivoluzione liberale che aspettiamo da cent’anni. E di non morire democristiani.
Forza Italia.

Nicotera, 14 luglio 2021.
pubblicato su “il dubbio”, quotidiano del 15 luglio 2021.

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