Senza lacrime per le rose.

Tra apocalissi che incombono e comunismi che vengono, io credo di avere capito solo queste poche cose. E non sono rose e fiori:
1.1) la pandemia ha messo in ginocchio l’economia globale organizzata per filiere lunghe: ciò che era uno straordinario vantaggio produttivo e economico distribuito si è rivoltato nel suo contrario – non è possibile completare alcun prodotto in un luogo se le sue parti prodotte in altri luoghi non arrivano e non vengono assemblate.
1.2) la pandemia ha mostrato anche i limiti della delocalizzazione: manca ovunque lo stesso prodotto se questo prodotto è diventato “monocoltura” di un determinato luogo impossibilitato a produrlo del tutto o in sufficienza e mancano in ogni luogo quei prodotti la cui fabbricazione è stata allocata in altri luoghi impossibilitati a produrli del tutto o in sufficienza.
1.3) la globalizzazione produttiva funziona perciò solo in un mondo dove la sua razionalità è data da un flusso continuo in equilibrio e non funziona più laddove l’equilibrio si rompe. La pandemia in un certo senso ha funzionato come se all’improvviso ogni merce (non solo finita, anche un semilavorato) prodotta in un paese venisse sottoposta da tutti gli altri paesi a dazi insostenibili, e quindi a costi non più convenienti. Finita l’importazione di quelle merci, però, i mercati nazionali si sono trovati impossibilitati a produrli.
1.4) dalla pandemia, perciò, è probabile che escano rafforzati processi di ri-nazionalizzazione delle produzioni, applicando cioè in modo più estensivo quel criterio di “essenzialità” che non ha mai fermato le “produzioni strategiche”. I processi di ri-nazionalizzazione potranno coinvolgere anche le forze produttive. Ma, a meno di immaginare un mondo di “autarchie” e di una infinità di dazi, ogni ri-nazionalizzazione produttiva avrà bisogno comunque di mercati aperti, è impossibile dare risposta alla domanda di merci e servizi a partire dalle risorse di tecnologia e materie di ogni singolo paese. Sarebbe, questa, del dopo-pandemia una grandissima occasione per l’Europa – laddove la si immaginasse non solo come un mercato comune tenuto assieme da una moneta comune o il luogo di un nuovo piano Marshall, che in fondo è solo la ricostruzione di ciò che era, ma piuttosto quella di una “comune area di produzione”.
1.5) la divisione tra lavori “a alto contenuto di valore” e lavori “a basso contenuto” si approfondirà perciò all’interno di ogni nazione – perché quella che è una divisione internazionale del lavoro si riprodurrà all’interno dei confini.
2.1) i mercati azionari non hanno mai smesso di funzionare. Le borse sono sempre state attive, avvantaggiate dal fatto che ormai la loro operatività è tutta “virtuale” e “da remoto”. L’algoritmo è l’unico elemento produttivo che non si è mai infettato.
2.2) Il paradosso di questa evidenza – di questa “autonomia del denaro” – sta però nel fatto che i mercati finanziari sono sostanzialmente immobili, meglio: congelati. A qualche impennata (i primi tempi dell’epidemia, probabilmente considerata sotto controllo), è seguita qualche depressione (quando l’epidemia s’è trasformata in pandemia, ormai il contagio fuori controllo), e ora è in attesa. Alcune produzioni, alcuni titoli non ce la faranno e crolleranno, l’economia dovrà comunque ripartire, ci sarà una enorme iniezione di liquidità e perciò si tornerà a contrattare e la borsa si riprenderà. A un sentimento vicino al panico di adesso, si sostituirà un sentimento vicino all’euforia di dopo. Ma l’incertezza regna sovrana al momento, nessuno ha la più pallida idea del mondo che verrà – e se la globalizzazione finanziaria andrà in conflitto con la ri-nazionalizzazione delle produzioni sarà di nuovo crisi.
3.1) ovunque, lo Stato-nazione è tornato protagonista, indipendentemente dalle sue declinazioni, democratico, liberale, autoritario. Diciamo che ovunque è lievitata la considerazione che solo lo Stato può salvarci, e che uno Stato debole è un moltiplicatore della crisi ma uno Stato forte (autoritario? autorevole?) che tutela i suoi cittadini ha tutto il nostro sostegno. In questa considerazione sulla necessità di una nuova ri-statalizzazione non ci sono confini ideologici, da destra e sinistra il coro è unanime: uno Stato, proprio come un diamante, è per sempre.
3.2) al «nazionalismo banale» (lo sbandieramento al quale non facciamo più caso) nel quale siamo generalmente immersi si è sostituita l’attivazione – consensuale e preordinata – di un nazionalismo «epico», rally ‘round the flag, la bandiera attorno a cui stringerci. Il nazionalismo epico è il processo emotivo che si affianca al nuovo “bisogno-di-Stato” – e non ha, anch’esso, confini ideologici perché non si basa sulle “distinzioni viziose” ma sulle “qualità virtuose”, i nostri eroi, i nostri comportamenti, la nostra sollecitudine.
4.1) la crisi delle forme della democrazia ripercorre quella della produzione e del mercato: è da entrambi i lati, la sua crisi, quello della domanda e quello dell’offerta. Non domandiamo più democrazia, perché la democrazia è complessità, e ci serve semplificazione; non ci viene offerta più democrazia, perché la democrazia inceppa i processi decisionali. La democrazia ha finito presto le sue scorte di magazzino e il suo prodotto just in time – la conferenza-stampa, il decreto – è l’unica cosa disponibile. Con un poco di zucchero, la pillola va giù.
4.2) il surrogato succinto della democrazia (cittadinanza, conflitto, partecipazione, dissenso, mediazione) è la tecnologia, la “tracciabilità”: siamo cittadini solo in quanto tracciabili. Senza tracciabilità, siamo ai margini della tutela, fuori da ogni diritto. Anzi: potenziali nemici interni. La tracciabilità ha una nostra attivazione consensuale, la nostra reperibilità. Diamo allo Stato tutta la nostra “reperibilità” – 24h 7×7.

Non mi pare il migliore dei mondi possibili, quello che può venire fuori: il “combinato disposto” di liberismo e nazionalismo, di ri-statalizzazione e globalizzazione è qualcosa di davvero inedito e potenzialmente micidiale. Però, tutte le contraddizioni che si possono creare sono altrettante occasioni per mettere in campo politiche per una vita più sostenibile, equa, democratica e libera. Se, quanto meno, cominciamo a recuperare i nostri corpi – al momento, dati per dispersi.

Nicotera, 19 aprile 2020.

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3 risposte a Senza lacrime per le rose.

  1. Antonella Marrone ha detto:

    Come mai uno Stato che si “cura” dei cittadini deve per forza essere forte o autoritario? Non posso desiderare uno Stato che pur nelle contraddizioni ci faccia andare a scuola (buona possibilmente), ci faccia curare negli ospedali, si preoccupi dei morti sul lavoro, abbatte a cannonate gli abusi edilizi, garantisca servizi (dai cessi pubblici a Internet pubblico) che si faccia carico di essere giusto e non vendicativo? Così, domandine da coronavirus-time

    • caminiti ha detto:

      perché uno stato debole, diviso tra centralità e decentramento, si è dimostrato inefficace, nella sua confusione sulla catena di comando – questa è l’osservazione comune. ma sono io a chiederti: perché la cura dei cittadini, come di altri “beni comuni” deve essere affidata a uno stato? magari possiamo costruire altre istituzioni, visto che queste sono un filo disastrose

  2. Edward ha detto:

    ciao Nanni, dov e che stavamo andando? era una sera buona per camminare, avevamo detto delle cose alla casa delle letterature, poi.. si, andavamo da Baruchello a Volume.

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