Della “cosa pubblica” rimangono solo macerie. Averla privatizzata, nella sconsideratezza delle ideologie degli anni Novanta, ne ha solo moltiplicato l’incuria, la dismissione, l’abbandono. L’Italia tutta è un’esondazione, un crollo, una faglia, uno sciame di incrinature. Un paese vecchio e malato, come i suoi abitanti e i suoi ponti, le sue gallerie, le sue linee di comunicazione.
Avessimo avuto – come è stato per l’industria del Novecento e i suoi opifici, le sue fornaci, i suoi capannoni – una “archeologia statuale”, avremmo capito meglio. E non dico dei palazzi governativi – le prefetture e i ministeri, che fossero anch’essi diventati luoghi per fiere del libro o “mille plateaux” gastronomici o esposizione di mobili da design, avremmo capito meglio – ma dico delle scuole, degli ospedali, dei ponti, delle ferrovie, delle strade e autostrade. Avremmo dovuto impacchettare tutto – come fa Christo con le sue opere – e consegnarlo all’arte. O alla consapevolezza della Storia. Avremmo capito meglio che lo Stato, proprio come l’industria del Novecento, era morto. Perché il corpo dello Stato del Novecento faceva coppia fissa con il corpo della produzione del Novecento e nessuno dei due poteva sopravvivere a lungo alla mancanza dell’altro.
Invece, abbiamo abbandonato tutto lì. Anzi, come dicono al sud usando una curiosa forma del transitivo che però qui spiega bene, abbiamo rimasto tutto lì: scuole, ospedali e tutto l’ambaradam, il welfare, insomma. Quello che ci accompagnava e proteggeva dalla culla alla tomba dentro una vita di lavoro salariato. Perciò, mentre lo Stato smantellava la sua funzione sociale affidando ai privati il suo ruolo pubblico, le sue strutture sono rimaste lì. Crepate, incrinate, arrugginite – erano ormai vecchie e stanche, disfunzionali al nuovo che avanzava: e troppi padiglioni di ospedale, troppe aule scolastiche, troppe caserme, troppe stazioni di ferrovia, troppi casotti per la manutenzione stradale. L’erbaccia selvatica – capace a crescere tra le ferite del cemento o dell’asfalto – s’è conquistata tutto il welfare. I privati s’erano presi il comodato d’uso dello Stato.
Avremmo dovuto – come si fa da sempre al sud con i paesi alluvionati, terremotati, smottati – abbandonare tutto lì e ricostruire più a valle. O a monte. Lontano insomma da dove c’era lo Stato di prima – ormai un fantasma di comunità. Lasciarlo, che so, ai turisti giapponesi. E cominciare noi, una vita nuova.
Invece, mentre il capitale trovava un nuovo “ordine produttivo”, ci siamo fatti l’idea che rimanere tutto lì fosse un qualche “ordine sociale” che ci teneva assieme ancora. I palazzi del governo restavano là e la “cosa pubblica” anche – che avevamo pur bisogno di rinnovare la patente o il passaporto e mandare i figli alla scuola e prendere i trenini regionali da stazioni senza più biglietterie e ricoverare un parente per un’improvvisa ischemia. Avevamo bisogno. E non abbiamo saputo costruire un nuovo ordine.
Perché poi la fine dello Stato di questo parla, non solo della globalizzazione finanziaria che ne può fare a meno o lo scavalca andando direttamente là dove può trarre profitto, spremere dove a nessuno sarebbe passato per l’anticamera del cervello che poteva spremersi – che so, l’istruzione, la salute, l’abitare, raccogliere i nostri rifiuti, darci l’acqua per bere e per dissetare gli assetati, muoversi tra un punto e un altro, che a noi sembrava un ordine naturale delle cose, che ci fossero, nel mondo di prima. Parla pure del fatto che a un certo punto, forse prendendone atto di malavoglia, forse perché siam fatti così, ci è sembrato pure a noi che ne potessimo fare a meno. Almeno a quelli di noi che possono mandare i figli alle scuole o alle università private, che la spazzatura gliela butta il filippino quando va via e che conosciamo il cugino del cognato del primario che visita in house epperciò gli paghiamo la parcella e andiamo in ospedale come se andassimo al suo studio. Gli altri, quelli che poi davvero usufruivano del welfare, dello Stato non gli è mai importato tanto se non per quello che poteva dargli, per tirare avanti. E perciò, chi ha potuto s’è arrangiato. Gli altri, ci sono rimasti sotto. Insomma, ce ne siamo scollati, dallo Stato, non ce ne siamo scrollati. Ce ne siamo scollati perché poi lo Stato non si dava più daffare – e le strade e gli ospedali e le scuole – per avere consenso, perché poi a questo serviva il welfare, a creare consenso, oltre che a favorire la grande industria. Solo che ora al capitale, del consenso – e quindi della domanda – non è che gli importasse granché: bastava erogare servizi sulle macerie della cosa pubblica e chiederti il pedaggio, e se li volevi quei servizi, che prima ci sembravano dovuti, ora o avevi pagato il ticket o ciccia.
Così, mentre lo Stato dismetteva il suo scopo pubblico, alla politica rimaneva lo scopo del potere. Un potere neanche più preoccupato del consenso, di politiche di massa o sociali, ma solo di costruire catene di complicità con altri poteri (economico, finanziario, militare) che non poteva più governare come “corpi propri” ma ci poteva sempre trattare: se l’orizzonte del capitale privato non va mai oltre quello del report annuale agli azionisti di riferimento, l’orizzonte dello Stato si è risolto nel Def (Documento di programmazione economica e finanziaria) o nella Legge di stabilità, buoni per far comprare un po’ di titoli, far fronte alle spese correnti – a cominciare dagli stipendi che senno’ vien giù tutto – e gravare il debito sui cittadini di oggi e domani, e tirare avanti.
Il 27 settembre 1796 l’Amministrazione generale della Lombardia bandì un pubblico concorso sul tema «Quale dei governi liberi meglio convenga alla felicità dell’Italia». Non è ben chiaro se l’idea del concorso fosse di Napoleone Bonaparte, ma i patrioti intendevano «aprire agli ingegni una vasta carriera, in cui trattando i grandi interessi dell’intera nazione, rendino famigliari al popolo gli eterni principi della Libertà ed Eguaglianza, gli facciano conoscere l’estensione de’ suoi diritti, la facilità di rivendicarli, e gli possono a un tempo stesso indicare gli scogli in cui può inciampare chi passa dal servaggio alla libertà». Arrivarono cinquantasette dissertazioni, di diversa provenienza geografica – come il fiorentino Giovanni Ristori e il cremonese Giuseppe Faraoni e chi voleva una repubblica democratica al Nord e una “aristodemocratica” al Sud – ma tutte rivolte all’Italia intera, compresa quella ancora “sotto il giogo dei tiranni”, in un ampio progetto di riorganizzazione dell’Italia, una “rigenerazione” etica, culturale, sociale, religiosa della società italiana. Vinse, e il premio di duecento zecchini, Melchiorre Gioia, che svolse il suo ragionamento così: «L’Italia sarà ella al massimo grado di felicità spezzandosi in repubbliche isolate e indipendenti? L’idea di divisione è congiunta all’idea di debolezza: la diversità d’interessi chiama al pensiero l’immagine della discordia». La felicità – dispiace che questa happiness, così da Dichiarazione di indipendenza americana, sia poi definitivamente scomparsa da ogni progetto di costituzione – stava tutta insomma nell’idea di un unico Stato.
È proprio curioso, ma la Storia gioca con queste cose di qua, ma se si facesse oggi un medesimo concorso bandito dall’Amministrazione di Lombardia io credo che “la voglia di Stato” che emergerebbe dagli elaborati che arriverebbero sarebbe la medesima. La sbornia da auto-imprenditoria e individualismo rampante, dal perseguimento del bene pubblico solo perseguendo fino in fondo i propri privati interessi, da tutela dalle ingerenze dello Stato nella vita privata e economica di ogni singolo cittadino, da “mercatismo”, è passata. Nazionalizzazione, statalizzazione, ritorno all’industria pubblica, nazionalizzazione delle banche – sono parole di nuovo comuni nella chiacchiera sociale: lo Stato deve garantirci la sicurezza, lo Stato deve garantirci il reddito. Come se la destra e la sinistra hegeliana – beh, per alzare un po’ il livello – entrambe smarrite sulla strada del liberismo avessero di nuovo trovato la retta via e il fondamento comune, lo Stato.
Quello che manca è il Soggetto. Economico, politico, storico. Quello che manca è il blocco sociale, fosse quello del patto tra borghesia industriale e agraria, fosse quello del patto operai-contadini. Ci ritroviamo perciò tra i piedi una ideologia – con i suoi cascami: nazione, razza, confini – senza un soggetto, una classe, un blocco sociale in grado di immaginare una “forma dello Stato” la cui universalità persegue fini precisi di interesse di parte e la modella nelle sue leggi, nelle sue carte costituzionali, nelle sue programmazioni economiche. C’è il “popolo”, sì, questo sì. È in questo tratto distintivo di ideologia la sua debolezza ma anche la sua pericolosità.
È possibile immaginare, praticare un’idea di ordine sociale, di istituzioni sociali, di vivere associato diverso dallo Stato? Sì, è possibile. Ma di questo, un’altra volta.
Nicotera, 22 agosto 2018.
p.s. = insieme si può leggere: sovranismo e globalismo: di cosa parliamo. e soprattutto, di cosa non parliamo.
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