L’eroica resistenza della Repubblica romana.

L’Europa è in fiamme.
I parigini si sollevano il 22 febbraio 1848, sotto la spinta dell’opposizione liberale, repubblicana e socialista al governo Guizot, prendono il controllo della città, mentre re Luigi Filippo rinuncia a soffocare con le armi la rivolta e abdica il 24 febbraio, e il governo provvisorio rivoluzionario proclama la Seconda Repubblica il 4 maggio 1848.
Berlino insorge il 18 marzo del 1848, quando scoppia una rivolta che viene repressa dall’esercito, e c’erano già state la rivolta dei Sarti (1830), quella dei Fuochi (1835) e quella delle Patate (1847). Il giorno dopo si ricomincia, e stavolta il re fa ritirare l’esercito. Il 25 marzo, Federico Guglielmo IV autorizza l’elezione di un’Assemblea Costituente Prussiana, e adotta la bandiera del movimento nazionalista tedesco (nera, rossa e oro). Tra marzo e aprile del 1848, la maggior parte degli Stati della Confederazione Germanica autorizza l’elezione di un’Assemblea Nazionale Tedesca, con sede a Francoforte, per creare uno stato unitario tedesco.
Dal marzo 1848 al novembre 1849, tocca all’Impero austriaco: governato da Vienna, comprendeva tedeschi, ungheresi, sloveni, polacchi, cechi, slovacchi, ruteni, rumeni, croati, italiani e serbi; tutti tentarono nel corso della rivoluzione di ottenere autonomia, indipendenza. Tutto era iniziato a Vienna, dove una folla di studenti universitari aveva protestato chiedendo un governo più liberale, la cacciata di Metternich dalla Cancelleria imperiale e una costituzione: circondarono la Hofburg, ponendola sotto un vero e proprio assedio. La famiglia reale insieme all’Imperatore Ferdinando fuggì, lasciando tutto in mano all’esercito. Scoppiarono rivolte anche a Praga, presto soffocate dal fedele esercito boemo.
In Polonia ci fu un’insurrezione militare del Granducato di Poznań (ci avevano già provato due anni prima) contro le forze occupanti prussiane. Dopo le prime vittorie militari si provò a trasformarla in guerra popolare, mentre si tentò di negoziare per una maggiore autonomia per il Granducato. Fu sconfitta: l’atto di capitolazione fu firmato il 9 maggio 1848.
Il 15 marzo toccò all’Ungheria, dopo una dichiarazione di indipendenza del popolo magiaro, guidato da Kossuth, dalla dominazione asburgica. Kossuth richiedeva che alcune prerogative fossero rispettate, come un ampliamento del diritto di voto. Con la sua dichiarazione d’indipendenza del 1849 il parlamento sperava in un appoggio di Francia e Inghilterra contro il giogo austriaco; naturalmente le potenze rimasero neutrali al conflitto austro-ungherese, poiché la nuova “nazione” ungherese avrebbe destabilizzato l’equilibrio raggiunto con la Restaurazione. Era proprio questo il punto, la Restaurazione. E contro questa, la Primavera dei popoli andò a sbattere.
Tutto era iniziato a Palermo. «Siciliani! Il tempo delle preghiere inutilmente passò, inutili le proteste, le suppliche, le pacifiche dimostrazioni…. Ferdinando tutto ha sprezzato, e noi Popolo nato libero, ridotto nelle catene e nella miseria, tarderemo ancora a riconquistare i nostri legittimi diritti? All’armi, figli della Sicilia: la forza di tutti è onnipossente… Il giorno 12 gennaio 1848, all’alba, segnerà l’epoca gloriosa della nostra universale rigenerazione». Era il testo del manifesto affisso per le strade qualche giorno prima dell’insurrezione. 12 gennaio 1848. È la miccia che incendierà l’Europa. I siciliani proclamarono l’indipendenza e si dotarono di un parlamento e di una costituzione. Re Ferdinando traccheggiò, poi mandò la Marina e bombardò. Lo chiamarono così, poi: Re Bomba.
In Italia è tutto un sollevarsi: nel Granducato di Toscana Leopoldo II concede la costituzione; Carlo Alberto, nel regno di Sardegna, lo Statuto albertino; Venezia insorge a marzo e dopo pochi giorni è la volta di Milano, contro gli austriaci, e sono le Cinque giornate; i piemontesi decidono di attaccare l’Austria, e è l’arrivo di corpi di volontari e la Prima guerra d’indipendenza. Non andrà bene – e tutte le speranze suscitate finiranno spazzate via.
Ma l’anno dopo, insorge Roma.
«Tutto è contraddizione nella città di Roma: un popolo ben nato e male educato; un governo pieno di grandezze e di piccolezze; leggi molto dolci e molto dispotiche; imposte molto modiche e molto pesanti; un gran fondo di sincerità naturale, tanta ipocrisia acquisita, vita economica e spese folli, prudenza meticolosa e collere cieche; abitudine di nascondersi e furia d’apparire; sentimento vivissimo dell’uguaglianza, profondo rispetto per le ineguaglianze sociali; costituzione abbastanza dispotica per riunire tutti i poteri nelle mani di un sol uomo, e abbastanza democratica per mettere una corona di re su una testa di cappuccino». Così è descritta la Città eterna, nelle gazzette straniere, a metà dell’Ottocento.
Ne scriveranno i letterati. Stendhal: «Il papa esercita dunque due poteri molto diversi: può fare, come prete, la felicità eterna dell’uomo che fa accoppare in quanto re». Dickens, descrivendo l’ascensione del papa in ginocchio della Scala Santa: «Io, in vita mia, non ho mai visto scena altrettanto ridicola e spiacevole che questa – ridicola negli assurdi incidenti che ne sono inseparabili; e spiacevole nel suo insensato e irrazionale abbrutimento». Andersen, raccontando del martedì grasso: «Poi arrivò un altro uomo con un organo sopra un carro: da ogni canna dello strumento spuntava la testa di un gatto vivo che emetteva atroci miagolii di dolore; infatti l’uomo teneva in mano delle cordicelle legate alla coda di ogni gatto e con quelle suonava l’organo». Orrore, stupore, fascino.
Speranza aveva suscitato l’inattesa elezione di Mastai Ferretti al soglio pontificio nell’estate del 1846: Pio IX, er papa novo. Giovane, aitante, il suo primo gesto, appena un mese dopo l’elezione, era stato un’amnistia: «Ora l’affezione che il nostro buon popolo ci ha dimostrata, e i segni di costante venerazione che la Santa Sede ne ha nella nostra persona ricevuti, ci hanno persuasi che possiamo perdonare senza pericolo pubblico». Dell’amnistia godettero un migliaio di sudditi, in carcere o esuli, accusati o già condannati. Fu gran festa a Roma. E poi, Pio IX fermò le esecuzioni capitali, iniziò una pratica di pubbliche udienze e istituì la Guardia civica. Tutte queste mosse non piacquero all’Austria – benché il papa si spendesse a spiegare che bisognava favorire la naturale inclinazione al moderatismo. Gli austriaci mandarono truppe in Romagna – tanto per mettere le cose in chiaro, con le potenze europee, come se fossero loro a garantire la sicurezza di Roma e del papa. Scriveva Metternich – che aveva sempre in animo di tenere distinti e separati i diversi staterelli italiani e si preoccupava del gran agitarsi di carbonari e democratici – agli ambasciatori austriaci a Londra, Parigi, Berlino: «Ciò a cui mirano le sette è la fusione di questi Stati in un solo corpo politico. La monarchia italiana non rientra nei loro piani; il Re possibile di questa monarchia non esiste né al di là né al di qua delle Alpi. È verso la creazione d’una repubblica verosimilmente federativa, sul modello di quella dell’America del Nord o della Svizzera, che tendono i loro sforzi». Metternich aveva ragione: in quel momento nel gran fermento dei patrioti italiani prevale il sentimento repubblicano, mazziniano, unitario e è forte anche l’ipotesi di una federazione di Stati; di monarchi proprio non se ne vuole.
Papa Mastai era intanto andato avanti con le riforme a piccoli passi: a novembre del 1847 si era insediata la Consulta di Stato, con primo ministro il conte Pellegrino Rossi, che era stato in Francia, era un moderato riformatore e sapeva insomma di cose del mondo, e poi il Consiglio comunale di Roma, composto di cento membri, scelti per due terzi fra i nobili e i possidenti e per un terzo fra i professionisti, gli scienziati, gli imprenditori. Due giorni prima che si insediasse la Consulta, il giornale «Il Contemporaneo» parlava di «una rivoluzione sociale che non si arresta sulla superficie, ma attacca le fondamenta». Tutto questo fermento era sempre accolto con manifestazioni di vivacità, cortei e grandi feste tra i rioni della città. Vi si distingueva un popolano, un commerciante di vini, Ciceruacchio; fu lui, come rappresentante di un battaglione rionale, che ebbe l’occasione di presentare a Pio IX le «Dimande del popolo romano»· «Libertà di stampa; allontanamento dei gesuiti; armamento civico; strade ferrate; abolizione degli arbitrii della polizia; codici con leggi utili e imparziali; istruzione pubblica; scola politecnica; incoraggiamento alle arti; abolizione del monopolio; lega italiana; emancipazione israelitica; commercio animato; municipj provinciali riformati; corrispondenze postali riformate e garantite; scola di pubblica economia; artiglieria civica; pubblicità degli atti della consulta di stato; secolarizzazione di alcuni impieghi; asili infantili; colonie nell’agro romano; riordinamento della milizia; libertà individuale garantita; riserva della guardia civica organizzata; marina incoraggiata; abolizione del lotto; amnistia ai 24 liberali rinchiusi in Civita Castellana; fiducia nel popolo, freno agli incessanti arbitrii; abolizione degli appalti camerali; abolizione dei fidecomissi; riforma delle mani morte; imporre ai preti e alle corporazioni religiose ciò che devono a Pio IX e alla Chiesa, cioè amore e rispetto».
Il ’48 con le insurrezioni e le concessioni che scoppiavano ovunque in Italia e in Europa animò ancora di più Roma – i giovani e “le sette” volevano davvero che cambiassero le cose. Fu la guerra contro l’Austria che incartò Pio IX: non voleva muovere le sue truppe contro una potenza cattolica, perciò amica, e non poteva però consentire che la propria “sicurezza” fosse garantita dall’occupazione di una potenza straniera del proprio suolo. Perciò, fece e non fece, ordinò un corpo di spedizione e si girò dall’altra parte. Ad aprile condannò la guerra all’Austria, e enorme fu la delusione. Le sconfitte dei piemontesi, la fine di Milano, l’evidente stallo delle speranze e delle costituzioni ebbero a Roma il riflesso di far crescere l’ostilità verso il governo. A novembre fu assassinato Pellegrino Rossi e una folla tumultuosa si mosse verso il Quirinale – papa Mastai fuggì a Gaeta chiedendo riparo a Re Bomba. Nel vuoto politico a dicembre fu varata una Giunta di Stato che Pio IX subito sconfessò, ma che intanto aveva convocato una Costituente romana: si indissero le elezioni per il gennaio del 1849. Vennero eletti 179 rappresentanti del popolo, e tra di loro Giuseppe Garibaldi, a Macerata, e Giuseppe Mazzini.
Il 5 febbraio iniziarono i lavori dell’Assemblea. Garibaldi scalpitava mentre i deputati discutevano di formalità e ritualità. Disse: «Intorno alle forme credo che si presenti al pensiero di tutti qualche cosa di più importante. Io dico e propongo che non si sospenda l’Assemblea, non escano i rappresentanti da questo recinto senza che l’aspettazione del popolo non sia soddisfatta. Esso intende di sapere definitivamente qual è la forma e il regime cui debba mirare lo Stato di qui innanzi. Qui sono tutti i rappresentanti della Nazione; per conseguenza, formole, cerimonie più o meno credo siano lo stesso; ma lo stabilire quale dovrà essere il Governo credo sia desiderio non solamente della popolazione romana, ma della Italia tutta. Fermamente io credo che dopo aver cessato l’altro sistema di governo, quello più conveniente oggi a Roma sia la Repubblica». Dovette aspettare, però, Garibaldi che “le formole” venissero compiute e poi, finalmente la Repubblica proclamata.
Poi venne il Triumvirato, poi una Costituzione avanzata tanto che sarà studiata in tutte le repubbliche che verranno, poi arrivarono i francesi – avuta mano libera dagli Austriaci – che dovevano restaurare il papato e attaccarono i loro fratelli repubblicani. Il resto è noto. La repubblica romana cadde, dopo eroica resistenza, il 4 luglio. Trattò una resa e la libera uscita dei volontari combattenti; Garibaldi disse: «Dovunque saremo, colà sarà Roma», ma sarà lungo e doloroso il suo percorso.
Tutte le rivoluzioni del 1848 finirono in questo modo in Europa, con città rase al suolo o incendiate, eccidi, fucilazioni, carcerazioni, esili. Ma l’equilibrio del Congresso di Vienna non può più reggere la spinta dei popoli a volere l’indipendenza e forme di libertà e democrazia: gli imperi sono destinati a crollare, il papato a cedere il suo potere temporale. Passeranno venti-trent’anni e questo accadrà, una nuova Europa si disegnerà attraverso il Risorgimento fino alla Comune di Parigi del 1870.

Nicotera, 1 giugno 2018
pubblicato su “il dubbio”, quotidiano del 2 giugno 2018.

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