Il liberismo è morto. Neppure noi stiamo tanto bene.

the_economist_crisis_liberalismThe liberalism is in crisis, twetta il settimanale «The Economist» che magari della globalizzazione non è il tempio ma certo il suo consulente geopolitico più influente e attento, quanto meno per l’Europa. E se lo dicono loro.
«The Economist» recita il mea culpa. Proponents of globalisation must acknowledge that technocrats have made mistakes and ordinary people paid the price – i tecnocrati hanno commesso errori che sono stati pagati dalla gente comune. Il settimanale britannico non si tira fuori – including this newspaper.
Tutta colpa di quel maledetto Muro. Non fosse crollato il Muro di Berlino, e insieme al Muro non fosse rovinata l’Unione sovietica, le cose sarebbero andate diversamente, chissà. La storia non sarebbe mai finita. Never take the history for granted, disse la Thatcher. Non dare mai la storia per scontata. Era il momentum del massimo trionfo del libero mercato, della deregulation, della società che è una cosa che non esiste, dello Stato e dell’attenzione e della cura ai suoi cittadini additati come una perversione oscura e un complotto dei socialisti per esercitare un occhiuto e totalitario controllo sulle nostre vite. La fattoria degli animali era in fiamme e non ci si preoccupava granché della loro sorte, anzi era il momento di festeggiare – e, in qualche caso, di elevare preghiere a Dio.
L’apice del trionfo segnava però anche l’inizio del declino. The Decline and The Fall of The Globalization. Non ci sarebbero stati più nemici per la democrazia, per l’occidente vittorioso, ma senza nemici cosa avrebbe tenuto assieme le nostre vite, le nostre nazioni? Un mondo omologato era anche un mondo piatto, senza passioni, triste. Fukuyama scriveva sulla «fine della Storia».
La spinta propulsiva della rivoluzione liberista è venuta esaurendosi: la globalizzazione ha finito la benzina. Per capirci: tra il 2001 e il 2014, il Pil pro capite negli Stati uniti è cresciuto del 14 percento (nonostante la crisi finanziaria del 2008), ma i salari solo del 2: hai voglia a sentir dire meraviglie se poi non riesci a pagare tutte le bollette che ti arrivano. Il progresso è sempre qualcosa che capita agli altri, se tu non ne vedi i benefici. È così che è andata.
Il voto per la Brexit ha suonato il campanello d’allarme, perché è stato un voto in qualche modo “punitivo” delle élite e della loro affabulazione. I tecnocrati di Bruxelles, i maître à penser che suonavano il piffero per il libero mercato, i politici che parlavano di un presente radioso e di un futuro ancora più promettente, sono diventati il bersaglio di una rabbia crescente. Dagli Stati uniti, con Trump, all’Europa – e qui, non mancano gli esempi –, populismi venati di nazionalismo (chiusura dei confini, tassazioni alle merci in circolazione, vincoli alle aziende, prima di tutto fare i propri interessi) minacciano un salto all’indietro che era inimmaginabile. Le magnifiche sorti progressive della globalizzazione – un mondo unico, dove ci sarebbe stata libera circolazione di merci, denari e uomini, un’unica democrazia – sono collassate.
Se la destra liberale ha mancato le sue promesse – un mondo meritocratico in cui lavorando duro ci sarebbe stata l’occasione di emergere e vincere –, la sinistra ha perso i connotati di portavoce delle istanze degli ultimi, dei diseredati, degli sconfitti dai processi di accumulazione. È stata una capitolazione, un disarmo, un 8 settembre teorico e politico. La sinistra riformista si è incartata in terze vie, in modernizzazioni rampanti, in dismissione di una qualunque decenza di pensiero: si sono tessute e cantate le lodi dell’impresa, dei capitani coraggiosi, dell’urgenza di smantellare ogni resistenza sociale in quanto sacche di privilegi, di antichità, di passatismi. E la sinistra radicale non è stata particolarmente brillante: l’abbiamo avversata, la globalizzazione, perché temevamo che il mercato ci avrebbe ridotto solo a consumatori di scarsa qualità, utilizzatori finali di cose prodotte per lo più altrove di cui non avevamo bisogno ma che ci avrebbero convinti fossero indispensabili; comunque ne vedevamo l’aspetto contraddittorio, e ci contavamo: sacche di arretratezza culturale, economica, sociale sarebbero state modernizzate fosse solo per essere in grado di comprare; i confini sarebbero stati più permeabili e ponti si sarebbero costruiti dove c’erano ataviche indifferenze; ci saremmo trovati più accostati, noi ceto medio di tutto il mondo, e così avremmo guardato nel cortile del vicino e lui nel nostro, ci saremmo scambiati abitudini e magari avremmo concorso per una migliore competizione, ci avrebbero stimolato, e loro, di riflesso, ci avrebbero imitato. Nel rischio di un’omologazione globale, c’era il vantaggio di una comprensione più facile, di una comunicazione più semplice. A conti fatti, non è andata così. Le lingue sono rimaste diffidenti.
«The Economist», ottimisticamente, crede si giunto il momento di rilanciare la sfida ovunque, perché il liberismo vinca di nuovo – è già successo, scrive, alla fine del Diciannovesimo secolo e negli anni Settanta, quando si dovette far fronte a un’ingombrante prepotenza del ruolo dello Stato.
Dall’altra parte dell’Atlantico, Robert Reich, che fu ministro del lavoro nella prima amministrazione Clinton e abbandonò l’incarico quando il suo presidente impresse una svolta liberista alla sua politica, ha di recente pubblicato un saggio che sembra lanciare un SOS, Saving Capitalism. Il libro inizia con un ricordo dei bei tempi in cui il capitalismo garantiva una vita tranquilla ai cittadini americani. «Ricordate quando il reddito di un insegnante elementare o di un fornaio o di un meccanico bastavano per comprare una casa, avere due auto e tirar su famiglia? Io lo ricordo, mio padre aveva un negozio nella strada principale di una piccola città in cui vendeva vestiti da donna alle mogli dei lavoratori della fabbrica. Guadagnava abbastanza per farci crescere confortevolmente. Non eravamo ricchi ma non ci sentivamo poveri». È difficile credere che quei bei tempi andati – lo sviluppo a pieno ritmo, il welfare rassicurante, l’associazionismo sociale vigile e partecipe – torneranno, in un keynesismo 2.0. E allora?
Magari sarebbe il caso farci un pensierino. Never take the history for granted, no?

Nicotera, 7 luglio 2016
Pubblicato su “il dubbio”, quotidiano del 13 luglio 2016

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