Grecia, si vota domenica 20 settembre. Do you remember Tsipras, Grexit, Memorandum?

tsipras-memoriakisDalle stelle alle stalle. Dico, la Grecia. Da che non si faceva altro che parlare del debito pubblico greco e della Grexit – la possibilità paventata da alcuni, auspicata da altri, che uscissero dall’euro –, a che di Grecia quasi non si parla più. E Obama tempestava di telefonate la Merkel perché si trovasse un accordo, e la Merkel arrivava agli incontri del mattino presto con il viso tutto stropicciato da nottate insonni a chiedersi cosa sarebbe successo, e gli economisti – Paul Krugman, il Nobel che tuonava contro l’Europa burocratica dell’austerità dalle pagine del «New York Times», e la coppia Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart, docenti all’università di Harvard, che difendevano il rigore – si accapigliavano come comari. Un finimondo. Pfuff, come volato via.
E sì che domenica 20 settembre si andrà a votare. Elezioni che sembrano passate in cavalleria. Quasi non avessero importanza. Quasi non contassero i risultati. Come si fosse già avverata la “profezia” della Merkel: qualunque sarà il risultato, il Memorandum dovranno rispettarlo. Amen. Non un sondaggio, non un’analisi. Non un’intervista. Ah, sì, Varoufakis tiene botta. Lui, le sue camicie fantasiose, la sua moto scoppiettante.
Ora per i media fanno “colore” i leader europei descamisados. Jeremy Corbyn, nuovo segretario del Labour inglese, l’uomo “non stirato”, conquista paginate per le sue cravatte allentate, le t-shirt a due euro, la bici molto usata. Ci fosse uno a chiedersi come è possibile che abbia conquistato il partito, e con quella maggioranza, quasi bastasse mettersi un paio di calzini a mezza gamba con i pantaloni corti e lasciarsi la barba un po’ incolta per rappresentare l’anti Blair. Che succede in Gran Bretagna? Quali sono le macerie del blairismo? Magari a noi italiani ci interessa, visto che là ci vogliono portare. Non gliene fotte una minchia a nessuno. Come per Iglesias, leader di Podemos, con il suo codino, la casa da quartiere popolare, la trasmissione tivù in cui con stile ultra-pop parla di cose serissime, la sua moto rombante. Che succede in Spagna, quali le macerie del zapaterismo, e del rigorismo accomodante di Rajoy? Zero carbonella, non pervenuto. I più “profondi” parlano di Podemos come eredità degli Indignados. Punto. Alexis Tsipras, che pure ha aperto l’ondata, sembra passato di moda, troppe giacche scure, troppe camicie bianche stirate, troppo senso di responsabilità, troppo moderatismo. Come fossero boy band per pubblici adolescenti, una stagione alla grande, poi via, una nuova band di ragazzini, uguale musichetta ye-ye-ye, uguale ciuffo, uguali le mossette.
Le cose però non stanno così. Le elezioni di domenica, in Grecia, sono state determinate dalle dimissioni di Tispras. Syriza, che lo aveva portato al governo, non lo sosteneva più: Syriza aveva 149 seggi su 300 e i «dissidenti» interni all’ultima votazione furono 44. L’accordo di luglio con i tedeschi e l’Europa era passato solo con il sostegno delle opposizioni. Di fatto, Tsipras non aveva più una maggioranza. Da Syriza si è formata una costola: Panagiotis Lafazanis, ex ministro dell’Energia e punto di riferimento di Piattaforma di sinistra, l’ala di Syriza che ha votato ripetutamente contro Tsipras e l’accordo di compromesso ottenuto dalla Germania e dall’Europa, ha messo assieme un nuovo partito, Leiki Anotita ovvero Unità popolare, e si è presentato con una propria lista. Ma due “star” della politica greca non sono andate con Lafazanis: una è il presidente del Parlamento, Zoe Konstantopoloula, molto presa dal suo ruolo istituzionale, e l’altra, appunto, è Varoufakis.
Varoufakis, che sembra completamente disinteressato all’esito delle elezioni di domenica, forse anche lui convinto che i giochi siano già fatti – una cosa che capisce, il “cedimento” di Tsipras, ma non per questo digerisce –, sta girando l’Europa come una trottola, Francia, Germania, Spagna. Dice che presto annuncerà la nascita di una sinistra pan-europea. Dove è il “pan” che dovrebbe rappresentare la novità – di sinistre europee se ne sono già viste – e lascia perplessi. Dall’Atlantico agli Urali? E oltre? Fin dove arriva l’ambizione di Varoufakis, alla Moldavia, alla Bielorussia?
La popolarità di Tsipras in Grecia è ancora molto alta; se ha perso alla sua “sinistra” ha guadagnato verso il “centro”, se queste definizioni hanno ancora senso. Ma Syriza non è Tsipras e i sondaggi la danno circa al trenta percento; più o meno quello che potrebbe prendere il partito conservatore di Nea Demokratia e di Evangelos Meimarakis. Tsipras – che, non senza ragione, invita a diffidare dei sondaggi – conta di prendere qualcosa vicino alla maggioranza, in termini di rappresentanti al parlamento, e di poter così rifare un’alleanza con i Greci Indipendenti, la piccola formazione conservatrice di destra che lo sosteneva già prima. Insomma, uno Tsipras 2. Senza i tuoi compagni che ti votano contro, che non è poco. Meimarakis pensa che ci voglia una Grosse Koalition alla tedesca – socialdemocratici e conservatori al governo insieme. Per ora, il partito più accreditato, come nel resto d’Europa d’altronde, è quello dell’astensione. Al referendum in cui stravinse il No, l’astensione era stata del 35 percento, non proprio una cifretta.
E invece non sarà indifferente il risultato delle elezioni greche. Può venirne fuori il sostegno al percorso – controverso, contraddittorio, sofferto – di Tsipras, dandogli quindi la forza di “governare” il Memorandum e non di esserne assoggettato, oppure la sua smentita clamorosa, con un successo di Meimarakis, oppure, ancora, una situazione di stallo. Inoltre, al centro dello scontro tra posizioni politiche non è neppure stata la questione del debito, ma l’impatto dell’immigrazione: la Grecia si trova a fronteggiare un’ondata di migrazione che viene dalla Siria, di passaggio dalla Turchia, per noi stessi inimmaginabile. Dalla Siria dall’inizio della guerra civile sono fuggiti in sei milioni: la popolazione di Atene, metà dei greci. Così stanno le cose, per capirci. Non sarà indifferente per la stessa “forma” dell’Europa.
Domenica l’altra, il 27 settembre, si vota in Catalogna per il referendum sull’indipendenza. La situazione è pesantissima. Il ministro della Difesa, intervistato da una tivù su quale sarebbe stato l’atteggiamento delle Forze armate riguardo l’esito del referendum ha risposto più o meno così: «Ognuno stia al suo posto, ognuno rispetti le regole, governanti, governati, e non succederà quello che lei teme». Che fa Rajoy, manda i soldati contro i catalani? Cannoneggia Barcellona? Le Forze armate, trovandosi un nuovo colonnello Tejero – quello del golpe tentato al parlamento spagnolo nel 1981 –, si ribelleranno con un altro “alzamiento”? Un pensiero che mette i brividi.
I catalani, come d’altronde gli scozzesi dello Scottish National Party e buona parte dei greci che votarono No e di quelli che votarono Sì al referendum, non hanno nessuna intenzione di andarsene via dall’Europa. Vogliono trattare, vogliono rompere il muro dell’austerità. Vogliono tenersi il gettito fiscale. Magari si costruisce una nuova Europa. Pan o meno, che sia. Varoufakis dice che ci vuole un altro “New Deal”. Io mi accontenterei di un Piano Marshall.
Ma io giro in Vespa, mica in moto rombante.

Nicotera, 16 settembre 2015

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