T day: il giorno del terrorismo globale.

attentato_kuwait_cityHanno cominciato quelli di al-Shabaab, la milizia islamica somala legata a al Qaeda. All’alba di ieri hanno lanciato un’autobomba carica di esplosivo contro la base delle truppe di peacekeeping dell’Unione africana a Leego, un centinaio di chilometri a sud della capitale Mogadiscio. Ci sono stati almeno trentacinque morti. La forza di peacekeeping dell’Unione africana, conosciuta con l’acronimo Amisom, è composta principalmente da soldati di Kenya, Uganda e Burundi e la maggior parte delle vittime sarebbero di quest’ultimo paese. Noi, qui in occidente, non ci avremmo fatto caso, a quest’attentato, se non ci fossero stati gli altri.
Moschea sciita, al-Imam al-Sadeq, a Kuwait City. Era la preghiera del venerdì e è mese di ramadan. La moschea era affollata. Il “martire” Abu Suleiman al-Muwahhid si è fatto saltare in aria. Sotto la veste nascondeva una cintura esplosiva. Ci sono stati venticinque morti e centinaia di feriti. L’attentato è stato rivendicato dalla “Provincia di Najd”, che si è di recente autodefinita la branca saudita dell’Is. A maggio, la “Provincia di Najd” aveva rivendicato altri due attacchi contro la comunità sciita. I terroristi sauditi non amano gli sciiti di Kuwait City, li considerano “negazionisti”. E poi il Kuwait ha donato 9,5 milioni di dollari alle Nazioni Unite per gli aiuti in Iraq, un sostegno poco più che simbolico. Noi, qui in occidente, non ci avremmo fatto gran caso, che fosse esplosa la moschea sciita, al-Imam al-Sadeq, a Kuwait City, se non ci fosse stato anche l’attacco a Sousse, in Tunisia, e a Lione, Francia.
Un mese fa, il “martire” Abu Amer Al-Najdi si era fatto esplodere nella moschea sciita di Qatif, nell’est dell’Arabia saudita. Era giorno di preghiera, e la moschea era affollata. Ci furono una ventina di morti e decine e decine di feriti. L’Esercito islamico – un’organizzazione terrorista che fa riferimento allo Stato islamico – aveva rivendicato l’attentato. Non era il primo attentato contro la minoranza sciita del paese. Non è facile spiegare la situazione: in Arabia saudita, paese “custode” della tradizione islamica e a maggioranza sunnita c’è una forte minoranza sciita. Il regime di Riad guida una coalizione di Paesi sunniti contro la ribellione in Yemen degli Houthi sostenuti invece dall’Iran sciita. E Riad partecipa anche alla coalizione internazionale a guida americana contro l’Is – attacchi aerei contro l’Is in Siria. Il governo saudita ha donato 100 milioni di dollari al Centro anti-terrorismo delle Nazioni Unite e 500 milioni di dollari sotto forma di assistenza sanitaria. L’attentato mirava a spaccare ulteriormente il fronte religioso, tra sunniti e sciiti. Lo Stato islamico non ama il regime Riad – che ha sempre giocato su più tavoli, anche quelli segreti e inconfessabili, per conquistare e mantenere un ruolo di potenza regionale. Noi, qui in occidente, non ci abbiamo fatto gran caso, che fosse esplosa la moschea sciita di Qatif.
Noi, qui in occidente, sappiamo poco dell’Esercito islamico saudita – che si richiama al Califfato – o della Provincia di Najd, che si considera il ramo saudita dell’Is.
Non è facile spiegare la situazione del mondo arabo. E anche quella del mondo occidentale. Per dire: Regno Unito, Danimarca e Belgio partecipano agli attacchi aerei contro l’Is ma solo in Iraq; in Siria ci sono solo Stati Uniti e alcuni paesi arabi. Per dire: non si sa neppure quante e quali siano le nazioni che facciano parte della Coalizione. Un giorno, Barack Obama ha detto: «Più di quaranta Stati si sono offerti di unirsi alla coalizione». Il giorno prima, il segretario di stato americano John Kerry aveva invece detto che più di cinquanta Stati avevano accettato di entrare nella Coalizione. Lo stesso giorno, in un documento diffuso dal dipartimento di Stato ne figuravano sessantadue.
Ieri era l’anniversario della presa di Mosul da parte dell’Is. È passato un anno da quando il Gran Califfo dell’Orrore ha issato la sua bandiera nera. Pochi giorni fa erano andati di nuovo all’attacco di Kobane, la città sul confine tra Siria e Turchia, che è stata per mesi al centro di una durissima battaglia, casa per casa, tra i miliziani dell’Is e i combattenti curdi. Sembrava fossero stati sconfitti, gli uomini del Califfo. Invece, sono tornati. Non in massa, ma con un’autobomba e attacchi suicidi. Però, nel centro della città, di quello almeno che è rimasto. Venticinque morti e decine e decine di feriti. I curdi sono convinti che siano entrati dal confine turco, lo stesso che si sono trovati sbarrato quando forze fresche hanno provato a rientrare. I turchi dicono che no, che sicuramente erano arrivati da Jarablus, in Siria. Non è facile spiegare la situazione.
Ieri, ancora, l’attacco clamoroso contro i resort turistici a Sousse in Tunisia, dopo quello di marzo contro il museo del Bardo. Sono arrivati con un gommone dalla spiaggia, in bermuda e maglietta e si sono messi a sparare contro i lettini e gli ombrelloni. Quasi trenta morti e decine e decine di feriti. Uno dei due attentatori l’hanno ammazzato subito, l’altro l’hanno preso poco dopo. Quello ucciso è uno studente non conosciuto alle forze dell’ordine, originario di Kairouan, nel centro del Paese, una delle città sante dell’Islam e sede della più antica moschea del Maghreb.
E ieri ancora a Lione un tizio fuori di testa, Yassin Salhi, ha ucciso il proprio datore di lavoro, lo ha decapitato, ha issato la sua testa sul palo di un recinto e poi si è scagliato contro una fabbrica, dove faceva consegne, cercando di far esplodere delle bombole. Aveva un drappo nero jihadista a casa, e hanno arrestato la moglie, e sono a caccia di un complice.
Forse non c’è niente che lega l’attacco a Leego in Somalia e quello a Lione, l’attentato alla moschea di Kuwait City e quello contro i resort turistici a Sousse, Tunisia. Miliziani dello Stato islamico, terroristi somali legati a al Qaeda, uno studente che veniva dal centro religioso della Tunisia, un operaio in Francia – chissà quali motivazioni potrebbero mai legare queste storie. Odiano noi, odiano l’occidente. È il lascito delle nostre guerre, del nostro sistema. Ma odiano – ricambiati – anche gli sciiti, e non si amano tra sunniti di questa o quella nazione, a volte sono in guerra gli uni con gli altri, o appoggiano le guerre degli uni contro gli altri, o di organizzazioni terroriste, le une contro le altre. In Yemen c’è una guerra civile, in Siria c’è una guerra civile. In Libia c’è il caos. Il Medioriente è terreno di giochi, a volte segreti a volte inconfessabili, delle potenze regionali.
Gli unici che sembrano avere le idee chiare sono i miliziani del Gran Califfo dell’Orrore. Anche i terroristi di al Qaeda sembrano avere le idee chiare. In certi periodi si combattono gli uni con gli altri, in certi periodi sembrano prendere le distanze gli uni dagli altri, in certi periodi sembra che possano anche costruire un’alleanza. Spesso per spiegarsi gli uni con gli altri fanno saltare in aria moschee oppure uccidono un po’ di occidentali o di africani, direttamente o per interposto terrorista.
Non è facile capirci qualcosa – e forse pure gli analisti strategici cominciano a avere il mal di testa e a non raccapezzarsi più. La geopolitica è andata smottando e gli interessi che prevalevano sinora – il petrolio, le materie prime, la divisione in blocchi ideologici – si sono moltiplicati e diffusi. Nessun califfo, per quanto le sue parole richiamino l’esatto rigore del verbo del Profeta, potrebbe festeggiare un anno di orrore se non potesse contare sul nostro imbambolamento – la Libia ne è mostruoso esempio – e sulle complicità ora di questo ora di quello. Dopo la guerra – e gli esiti non proprio felici – non abbiamo più saputo cosa fare, se non l’inerzia dei bombardamenti.
Quelli che qui da noi sembrano avere le idee chiare come i miliziani del Gran Califfo sono quelli che ci spingono a considerare ogni musulmano un nemico, che vorrebbero adesso non solo rimandare indietro, anche sparando anche bombardando, quelli che cercano di fuggire dall’orrore, ma tutti quelli che stanno qui. I nemici interni, la Quinta colonna. I musulmani. All’ingrosso.
L’unico sguardo sulle cose che dovremmo tenere è quello delle vittime, lo sguardo di quelli che scappano dalle guerre, dagli attentati nelle moschee, dalle autobombe, dagli sgozzamenti, dai divieti, dalle prediche, dall’oscurità.
Più ci chiuderemo, più respingeremo, più ci faremo prendere dall’intenzione di escludere, di tenere lontano da noi il carico di dolore che questo tempo comporta, più saremo condannati al fallimento. Forse vinceremo contro i terroristi dello Stato islamico, o quel che diavolo sono, ma perderemo noi stessi.

Nicotera, 26 giugno 2015

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