Guardano, i partiti, alle prossime elezioni siciliane del 28 ottobre come a una cartina di tornasole di quello che potrà accadere quando si voterà per l’Italia intera. Per farci i propri calcoli, insomma, e verificare le alleanze o impegnarsi in altre nuove.
Così, il Pd, dopo essersi spaccato durante il governo regionale di Lombardo, tra chi lo sosteneva – e fior di galantuomini, di icone, anzi – e chi vi si opponeva accusandolo di essere manutengolo dei mafiosi, e dopo essersi frantumato nelle amministrative per il Comune di Palermo in una faida incomprensibile oltre lo Stretto tra la giovane promessa dell’Idv e il vecchio leone Leoluca Orlando, sempre dell’idv, sembra ritrovare una propria malferma unità dietro il nome di Rosario Crocetta, frocio militante, la cui prima dichiarazione da candidato è stata su un voto di castità se verrà eletto – come un pretino di seminario, in penitenza dal vescovo. L’unità del Pd è esogena però: cioè, si è ottenuta solo grazie all’alleanza con l’Udc – il partito dei vescovoni che in teoria mal dovrebbero sopportare come proprio candidato quel frocio militante, sfregio inalberato alla riproduzione e al sacro vincolo del matrimonio, ma che forse per quel pretesco voto di castità – un fioretto pubblico – possono anche digerirlo e sostenerlo. Così, qui, su un frocio penitente se vincente, si gioca il destino politico della prossima Italia, quell’alleanza fra Pd e Udc, che dovrebbe rappresentare la convergenza tra la sinistra riformista e il centro moderato, per gestire il dopo Monti.
Ma pure il centrodestra vi guarda, a morsi come si è preso tra un Pdl gestito prima disinvoltamente da Micciché, in guerra sempre aperta con quei democristianoni di Schifani e Alfano, che però era sugli scudi quando era riuscito a portare a casa il più trionfale dei trionfi del berlusconismo: un 61 a 0, nel rastrellare le elezioni politiche che aveva lasciati sbigottiti tutti, e per primi i siciliani, impauriti subito dall’aver commesso quella madornalità da apprestarsi a rosicchiargliela, a depotenziargliela. E già che pure lui – spocchioso oltre ogni arroganza lecita –, strafottente, dedito con sistematica passione fin dentro i ministeri all’uso di sostanze che ne sublimavano e deformavano il caratteraccio, non è che se ne stava cheto. Ora dice che «sì, in gioventù si è avvicinato alle droghe», ma deve essere intesa, questa sua gioventù, come un moto dell’anima e non certo dell’anagrafe, una libertà di spirito, un ribellismo mai sopito, che è già uomo bell’è fatto da tempo, ma la dedizione non sembra essere venuta meno se Lombardo – che di debolezze altrui ha fatto, forse per mestiere e studi, coperta delle proprie – gliele rinfacciava proprio ier l’altro. E così il Grande Sud di Micciché – grande pur senza la bella Prestigiacomo, che saggiamente aspetta un giro – ha deciso di mostrare i muscoli, invelenito da un promesso accordo sul proprio nome come candidato unico del centrodestra, poi smontato però da quelle faide di cui si diceva, incomprensibili anche queste oltre lo stretto, e che lo hanno scaricato per puntare su un più domestico Nello Musumeci.
Ripescato, questo fascistone d’altri tempi, che rimpiange gli anni in cui «con Almirante eravamo il primo partito della Sicilia orientale», che è uscito dal Pdl e non è andato con quel traditore di Fini, di cui tutto si potrà dire, a cominciare dalla disinvolta gestione del patrimonio immobiliare del partito, però la destra italiana ha provato a spostarla verso la rispettabilità, e si è invece appattato con Storace, un rottame della politica sopravvissuto grazie a prebende e pensioni accumulate e favori distribuiti ma che a sentirlo sembra ardito della prima ora, rappattumato da Berlusconi che quando si tratta di mettere assieme gli 0,2 per cento è un maestro, ma sa che sono dieci, quindicimila voti che fanno la differenza, a livello nazionale, e figurarsi in una regione. E così, Berlusconi spera di vincere, ma non perché gliene freghi qualcosa della Sicilia – a parte il Ponte, che manco idea sua era, non è che abbia mai tirato fuori un’altra idea dal cilindro, e c’ha campato quindici anni – ma giusto perché questa vittoria del fascistone servirebbe a un ripensamento dell’Udc, e a avvicinarglielo, per la casa comune dei moderati, e già si è pure portato un po’ avanti, perché in vista di questo obiettivo lui ha fatto un passo indietro.
E così, in questo pastrocchio, ci mancava il buffone, un giullare che dice la verità sbertucciando e facendo le piroette, e che fa ridere con i suoi lazzi, e poi passa con il cappello raccogliendo voti invece che monetine. E fa a bracciate lo Stretto – in diretta discendenza con Garibaldi e gli alleati, anche lui un liberatore –, e a falcate la salita dell’Etna e di corsa la processione della santa, e questo dinamismo suo, così fisico, così spirituale, dovrebbe poi risvegliare, infondere soffio vitale in quel mastodonte sopito e avvilito che è l’isola.
E, insomma, questo è il quadro. Dove un amministratore serio e capace, Crocetta, minacciato più volte dalla mafia, outsider di lusso per un partito troppo attento ai poteri locali, istrione ma equilibrato, si prova a lanciare – che di rilancio mai si potrebbe parlare seriamente – una proposta democratica, di governo che dovrà essere sobrio per forza dopo i fasti e i nefasti di Lombardo. Dove una proposta laica di centrodestra, rappresentata da Micciché, più legato all’imprenditoria che alle parrocchie, può dare un segno dinamismo e di modernità, liberandosi da un’opzione democristiana. Dove la destra ha radici e sensibilità sociali e una storia di cultura lunga e rimossa che si è proiettata spesso sulla nazione tutta, e Musumeci ha certo dimostrato come presidente della provincia di Catania di saper amministrare con rigore e serietà e non appartiene, se non costretto dagli eventi, a quel becerume nostalgico, impotente e maneggione che gli è stato spesso vicino. Dove Grillo, con la sua straordinaria ingenuità politica può davvero fare un salto di qualità – dopo la conquista di Parma – incanalando la protesta in un desiderio di cambiamento, evidenziando anche al Sud, anche nelle province lontane e non solo nelle metropoli o nella città del Nord, la presenza di un soggetto nuovo, attento alle tecnologie democratiche e alla trasparenza della cosa pubblica. In fondo, che sia una maschera di comicità a svelare la nudità del re appartiene alla nostra storia culturale migliore, e anche a quella più recente: Dario Fo ci ha vinto un Nobel, dopo averci provato una vita, senza riuscirci sempre invero, a dimostrare che è il giullare che impaurisce i potenti.
E così le cose si possono leggere da destra verso sinistra o da sopra a sotto o viceversa, e non è che l’una lettura debba per forza significare che l’altra sia falsa, ma la corrobora e la sostanzia.
A me piacerebbe davvero che la Sicilia fosse laboratorio di cambiamento. Magari non è proprio detto che accada col voto del 28 ottobre.
Nicotera, 18 ottobre 2012