Non è il tramonto dell’Occidente, ma quello delle identità politiche. Magari è la stessa cosa.

Fa tenerezza l’affanno con cui i “compagni di strada” del Pd suggeriscono quella o quell’altra “linea” che dovrebbe tenere e definire al congresso: si riparta dal lavoro, dice l’uno; si riparta dai diritti, dice l’altro; si riparta dallo stato sociale, dice ancora un altro – una bailamme argomentativa in cui nessun pezzo riesce a incastrarsi con un altro. Non che i temi, di per sé, siano fuori fuoco – è che non si capisce intorno quale “tronco” questi rami debbano crescere, cosa possa essere oggi “la sinistra”, quale sia la sua identità. Si finisce perciò, inevitabilmente, a discutere delle “facce”, come se queste potessero incarnare, di per sé, una identità politica (i politologi discutono delle “correnti”, e peggio mi sento).
Io credo che il tramonto delle identità politiche forti e chiare in questo paese sia riconducibile alla tempesta di “tangentopoli” – che mise assieme in un unico calderone, quello della corruzione pubblica, tutta l’esperienza storica del cattolicesimo popolare e del riformismo socialista. L’unica identità forte e chiara che ne veniva era la corruzione politica e personale di quelle esperienze. Un dato ormai irredimibile: non c’era più questa o quella mela marcia, era marcio tutto il cocuzzaro. E perciò la dialettica politica non passava più per le identità della destra e della sinistra, ma per quella della corruzione o della integrità.
“Tantengotoli” arriva dopo la caduta del muro di Berlino e la crisi dell’Urss – quando l’altra identità forte e chiara, l’altra “chiesa” di questo paese, quella comunista, si trovò terremotata, smarrita, in mezzo al guado. Non ne venne, come pure avrebbe potuto, una configurazione di un partito dalla chiara e forte impronta socialdemocratica – quello che poi era sempre confusamente stato – ma un pasticcio della “terza via” tra liberismo e stato che significava poi stemperare in qualche modo l’ondata del reaganismo e del thatcherismo che aveva trionfato negli anni Ottanta, ma tenendosi fermi dal lato del “mercato” più che della “cosa pubblica”. Credo che l’uomo che più di altri abbia rappresentato – anche fattualmente, con provvedimenti – questo percorso sia stato Romano Prodi, interprete, peraltro, di un “andazzo europeo” che si piccava d’essere diverso dalla foga liberista anglosassone. È con Prodi che la sinistra “sposa” l’identità europea come propria visione, programma, agire politico.
Certo, è il decennio anche dello “splendore berlusconiano”, ma Berlusconi non è mai riuscito a costruire una identità forte e chiara del suo movimento politico, Forza Italia. Ha incarnato l’imprenditore di successo che si svincola dai lacci e laccioli della vessatoria burocrazia statale, ma non ha mai messo a terra un possibile percorso sociale (chesso’, come il Reagan di “starve the beast”, affama la bestia statale, o il Deng di “cinesi, arricchitevi”) di questa dimensione privatissima – sempre troppo preso dai suoi personalissimi interessi. Berlusconi raccoglieva la persistente anima anti-comunista di questo paese, che andava dalle eredità post-fasciste di Gianfranco Fini ai post-socialisti ai post-einaudiani, intendendo con l’anti-comunismo la virulenza contro tutto ciò che era “politico”, pubblico.
Prima che del disimpegno sociale, sono stati gli anni, quelli, del disimpegno politico. Il precipitato di questo lungo “periodo buio”, un vero medio-evo, benché breve, della politica italiana, è stato il passaggio diretto di Antonio Di Pietro dall’impegno in magistratura, nel pool di “mani pulite” a quello in politica – come se questo fosse la continuità di quello, l’inveramento di quello. Un “precedente” che avrà molto seguito. Di Pietro costruisce un movimento politico, con la “simpatia” degli italiani che arrivò a sfiorare il 90 percento, che incarna – con la retorica dell’uomo da Montenero di Bisaccia, il suo eloquio, le sue popolane sgrammaticature – una sorta di “campione dell’incorruttibilità” che con le maniere spicce, anche sbirresche, poteva raddrizzare tutto. Cadde, per la sua stessa fragilità umana, ma cadde, soprattutto, perché quel movimento politico non riusciva a produrre nella misura dell’attesa che suscitava. Era successo anche con la Rete di Leoluca Orlando che partendo dalla “primavera di Palermo” – la fine, cioè, della orribile commistione tra il potere politico cattolico e la mafia, che durava dall’immediato dopoguerra – e con l’appoggio culturale e connettivo dei gesuiti provava a rinnovare il mondo cattolico e la politica cattolica. Una impresa enorme, che non fecero i cavalieri.
Dopo la faccia da poliziotto di Di Pietro e la faccia drammatica e luttuosa di Orlando, arriva la comicità di Grillo: una risata vi seppellirà. È il Movimento 5stelle, che proprio della assenza di una identità forte e chiara ha fatto il “segno” del proprio agire, del proprio diffondersi, rovesciandolo cioè in un “carattere positivo”: né di destra né di sinistra – come bastasse dire questo per “presentarsi al pubblico”. Contro la casta, onestà. Bastava, per la verità: siamo una “cosa nuova” – che importa se non siamo né carne né pesce. Ma era esattamente il “punto” a cui era arrivato il sentimento sociale – senza più destra e sinistra (se non in piccole roccaforti ideologiche), con un imprenditore che si faceva i czzi suoi, una sinistra che smantellava sistematicamente ogni sistema pubblico in nome dell’efficienza e della produttività del privato, e i tentativi, falliti, di ricostruire la politica. Il nemico ora era “la casta” (che era di destra e di sinistra). Tangentopoli aveva finalmente trovato la sua forma politica di massa.
Solo i leghisti mantenevano una propria identità. Ma, al contrario del detto andreottiano per cui il potere logora chi non ce l’ha – la verità è che la Lega non portava a casa proprio nulla, fino a diventare un “partito come gli altri”, attraversato da nepotismo e scandali di corruzione: il secessionismo prima, il federalismo e le macro-aree dopo, si erano logorati in un nulla-di-fatto (in rituali, come il raduno di Pontida, l’ampolla dell’acqua del Po o il parlamento padano) e nell’accaparramento della “cosa pubblica”. Questa è stata la parabola di Bossi. Un movimento politico che rincula, e si disgrega nella corruzione minuta, perché non riesce a sfondare il “tetto di cristallo” della realtà dei poteri.
Da tangentopoli, cioè, siamo passati attraverso una serie di “sperimentazioni” (il berlusconismo contro il “teatrino della politica”, il leghismo contro “roma ladrona”, il dipietrismo, l’orlandismo, il grillismo contro “la casta”) dove l’unica continuità che si può intravedere, tra movimenti politici pure così diversi, era il tramonto delle identità novecentesche della destra e della sinistra.
Ora, io credo che la destra in questo paese si stia riorganizzando – quanto meno da un punto di vista ideologico: non è solo sua pertinenza, diciamo così, ma cos’altro è Meloni con il suo “Fratelli d’Italia” se non una identità fortemente nazionalista, chiaramente tradizionalista e conservatrice, quando non apertamente reazionaria. E il punto non è tanto la sua capacità aggregatrice ma “l’egemonia” culturale, diciamo così, che si coagula intorno questa identità fortemente nazionalista, chiaramente tradizionalista e conservatrice, quando non apertamente reazionaria: lo sentiamo nelle parole contro poveri e disoccupati, in quelle sulla meritocrazia e l’umiliazione nelle scuole, in quelle altre sulla famiglia e il genere, ancora in quelle sui migranti; ne verranno sui sindacati, sul lavoro, sul ruolo delle imprese “nazionali” e via via.
Forse, dico forse, sarebbe il caso di “ripensare” la sinistra. Che è più facile a dirsi che farsi. Non mi pare che il congresso del Pd – almeno sinora – aiuti.

5 dicembre 2022.

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Da icona a reietto: anatomia del linciaggio di Aboubakar Soumahoro.

360 rate mensili da 1.078 euro l’una, per un totale di 388.080 euro. Trent’anni di mutuo. Questo è il contratto di acquisto della casa di Aboubakar Soumahoro e della sua compagna – su cui tanto si è ricamato. Prezzo di mercato, in un momento, peraltro, di ribasso delle quotazioni. Trent’anni di mutuo a mille euro al mese in due, non hanno propriamente l’aria di una “malversazione”. Di sacrifici, piuttosto. Hanno scavato tra rogiti con il notaio, bonifici, conti correnti – e tutto è regolare. Hanno sospettato che ci fosse del “nero” pagato fuori contratto e sono andati a parlare con l’ex proprietario che ha venduto la casa: «Sono disponibile a parlare con voi – ha detto – purché non si facciano illazioni. Faccio l’imprenditore e non ho venduto questa casa con una parte in nero. Tutto quello che ho ricevuto, assegni e bonifici, sono stati tracciati e regolarmente riportati nell’atto. Magari dietro a questa storia c’è tutto il marcio che sospettate, ma non lo troverete nell’acquisto di questa casa». Fine della storia? Macchè. Come può permettersi una casa così? Per costoro, Soumahoro dovrebbe vivere in un tucul africano di argilla e paglia, per essere “autentico”.
Bisogna dare un’occhiata alla pagina facebook di Soumahoro per rendersi conto di quale sia “l’onda d’urto” di questa vicenda: tornatene in Africa; stai facendo vergogna; paga i tuoi dipendenti; questo a capito bene che in Italia può fare il furbo; sei un fenomeno ai trovato l’America in Italia; non si può vedere e ascoltare, basta – e questo è solo un “florilegio”, certo ci sono anche attestazioni di fiducia e sostegno. Ma la sensazione, netta, è che il “caso Soumahoro” abbia scatenato un odio sociale senza più freni, senza ritegno. Non che prima mancasse – ma ora ha trovato l’occasione che tutto il rancore che covava aveva una sua “prova”.
Ecco, appunto: quale sarebbe la prova? A tutt’oggi, Aboubakar Soumahoro non ha ricevuto alcun atto giudiziario – l’inchiesta partita dalla procura di Latina che riguarda le cooperative gestite dalla suocera e in cui aveva, non più da tempo, un ruolo la sua compagna non imputa alcun atto, alcun fatto, alcuna illegalità, alcuna illiceità a Soumahoro. Non parleremo perciò di queste – perché non c’è nulla da dire, al momento, che riguardi Soumahoro; la signora Marie Therese Mukamitsingo sta già provvedendo alle proprie incombenze. Se ci sarà, quando ci sarà – vedremo.
Quello di cui invece vogliamo parlare è della “chiacchiera pubblica”, dove incompetenza, ignoranza, malafede, interesse, invidia, gelosia si intrecciano inestricabilmente, in un rimando tra social, talk-show, giornali, bar dello sport, e di come il giustizialismo abbia avvelenato ormai i cuori e le menti di questo paese – senza distinzione di razza, sesso e credo religioso: l’unico elemento su cui si potrebbe oggi, orridamente, scrivere una carta costituzionale comune: art. 1, ogni sospettato è condannato senza attesa di giudizio. Nel caso di Soumahoro non c’è nemmeno il “sospetto” di un comportamento illecito – ma solo di una “doppia morale”. E gli italiani – che rispettano le file, che non chiedono i favori all’amico dell’amico, che pagano le tasse con estrema regolarità, che non usano i poteri quand’anche minimi che hanno per favorire i parenti, che si guardano bene da abusivismi à gogo tanto sanno che non saranno mai condonati – si sa che sulla “moralità” non transigono. Quella degli altri.
E a Soumahoro non gli si può perdonare nulla. Non gli hanno mai perdonato nulla gli avversari di un tempo e di adesso; non gli hanno mai perdonato nulla i “compagni” di un tempo e di adesso. Proprio come accadde a Mimmo Lucano, che la rivista «Fortune» inserì tra i 50 uomini più influenti della terra – ma come, un sindacuccio di un paesicchio della desolata Calabria? E vai – che a oscuri funzionari, insignificanti amministratori, pimpanti plenipotenziari e magistrati e giornali questa cosa proprio non poteva calare giù. Ci si misero di buzzo buono – da destra e da sinistra – e alla fine persino il Pubblico ministero nella sua arringa accusatoria doveva riconoscere che non un soldo era finito nelle tasche di Lucano ma le “irregolarità” le trovarono. E si levarono lo sfizio: una fiorente attività di accoglienza, a cui tutto il mondo civile guardava, prima stritolata dalla riduzione e dalla negazione dei flussi finanziari e poi massacrata mediaticamente e giudiziariamente. Riace cancellata. I sepolcri imbiancati di sinistra reagirono con la loro ipocrisia di sempre, il tratto distintivo del “ceto medio riflessivo” – sì, però, le irregolarità non sono giuste.
La stessa ipocrisia con la quale chiacchierano ora di Soumahoro – non poteva non sapere, le pago anche io con le mie tasse quelle cooperative, non sta bene che si vada in giro con le borsette e le scarpe firmate se stai con i migranti. E la moglie di Cesare, come scrisse Plutarco, deve non solo essere onesta, ma sembrare onesta; la signora Liliane Murekatete, compagna di Soumahoro, “la moglie di Cesare”, ha intanto fatto sapere che non ne può più di passare per una “cinica griffata” e ha dato mandato al suo avvocato di difendere la propria immagine e querelare chi la diffama. I più colti citano L’impostore di Javier Cercas, la storia di quel signore in Spagna che riuscì a spacciarsi per un eroe rispettato e riverito dell’antifranchismo ma che se n’era rimasto ben rintanato al tempo – che peraltro è un libro bellissimo, dove la parabola individuale è poca cosa e racconta piuttosto il meccanismo di rimozione collettiva del proprio senso di colpa per avere accettato in silenzio trent’anni di fascismo. Forse è di quel “senso di colpa” che vogliono liberarsi oggi quelli che prima ci facevano i tour politici con Soumahoro, quelli che prima lo ospitavano nelle loro trasmissioni, facendo la ruota del pavone tollerante e guadagnandoci in immagine ben più che Aboubakar stesso – il senso di colpa di chiudere gli occhi davanti gli orrori del bracciantato nelle nostre campagne o le stragi che accadono nei nostri mari. Basta basta non vogliamo più saperne, ci è bastato il “caso Soumahoro”, Aboubakar l’impostore.
Perché alla fine il risultato di tutto questo ciarpame mediatico – se venissero riscontrate delle illegalità nella conduzione delle cooperative di cui si tratta andrebbero sanzionate, punto, restituendole a un funzionamento esemplare, punto – è che tutto il mondo dell’accoglienza viene messo in discussione; già è partita la guerra delle destre in tutti i comuni interessati dall’inchiesta contro assessori e sindaci del centrosinistra che “largheggiavano”. Ovvero, applicavano le direttive dei ministeri.
Soumahoro non è un caso di “malagiustizia”, ma direi di qualcosa che somiglia alla “giustizia proletaria” – i più feroci contro di lui sono proprio quelli che lo portavano in giro come la Madonna pellegrina quando stava con loro: ma i poveri sono sempre i più feroci contro qualcuno di loro che ce la fa. E Soumahoro è uno che ce l’ha fatta, e non glielo perdonano proprio: lo accusano di personalismo, di eccesso di protagonismo – ma, ragazzi, non è che tutti potete essere Abou, fatevene una ragione.
Una storia tristissima, questa – perché mette a nudo, in maniera drammatica, quanta violenza siamo in grado non solo di assorbire ma anche di esserne noi stessi portatori: dateci qualcuno da fare a pezzi, da sbranare, non aspettiamo altro.
E questo – anche se non ha le forme dei cappucci bianchi e delle croci in fiamme – si chiama linciaggio.

Nicotera, 30 novembre 2022.
pubblicato su “il dubbio”, quotidiano dell’1 dicembre 2022.

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