Sahra Wagenknecht e noi.

A settembre si vota in tre Länder dell’est della Germania: il primo del mese in Turingia e Sassonia, il 22 in Brandeburgo. I sondaggi sono allarmanti e spietati – quasi ovunque Alternative fur Deutschland è data al trenta percento. Il che potrebbe aprire scenari davvero inquietanti. Ma noi qui vorremmo occuparci di Sahra Wagenknecht e del suo Bündnis (alleanza), che è dato in continua crescita, fino a un possibile 9 percento in Sassonia e uno strabiliante 19 percento in Turingia, dove il governatore uscente è Ramelow, uomo della Linke (da cui è uscita la Wagenknecht), che dimezzerebbe i propri voti proprio a vantaggio del Bündnis. Se esiste un “divieto politico” a fare accordi di governo con l’AfD – anche se rimane da vedere quale forza elettorale riuscirà a tenere questo argine – non egualmente è per il Bündnis (a parte un rocambolesco accordo con l’AfD, peraltro già proposto e tosto rifiutato).
Sahra Wagenknecht – il cui attuale successo è dovuto, senza dubbio, anche alle sue brillanti capacità – ha di recente pubblicato un “compendio” delle sue idee, pubblicato in Italia da Fazi: Contro la sinistra neoliberale, che è un po’ come sparare sulla Croce rossa. Non abbiamo letto il libro, ma la sua prefazione, firmata da Vladimiro Giacchè, sì – e siccome essa prefazione ci sembra redatta con puntigliosità e entusiasmo, diremmo: con aderenza, possiamo prendere per buono che riassuma rigorosamente il pensiero della Wagenknecht.
Il quale pensiero si può a sua volta riassumere così: la sinistra ha abbandonato la giustizia sociale e ha sposato il liberalismo, ovvero l’individualismo, e il cosmopolitismo, il cui aspetto più evidente sono i “diritti civili” (sarebbe codesta la Lifestyle-Linke: lo stile di vita, le abitudini di consumo e i giudizi morali sul comportamento, cose che interesserebbero solo il “ceto medio laureato delle città”); l’argine ai dettami del mercato era lo Stato, le cui provvidenze a favore dei più deboli era la sua forma di “stato sociale” – il globalismo ha smantellato il carattere pubblico e sociale dello Stato puntando alla privatizzazione di ogni bisogno sociale e di ogni servizio, e la sinistra vi si è accodata: bisogna perciò rimettere in piedi lo Stato, e il suo carattere nazionale, per frenare e impedire ogni suo trasferimento di potere verso unità “sovranazionali”, come l’Unione europea, sulle quali non abbiamo alcun controllo. Per spiegare meglio cosa è questa Lifestyle-Linke e come si sia allontanata dalle questioni reali delle persone ricorda quanto accadde nel 2019 in una cittadina della Lusazia (nell’Est della Germania): i giovani di Fridays for Future vi si erano radunati in corteo per richiedere l’uscita dal carbone e si videro marciare contro i circa mille abitanti del paese, che intonavano i canti dei minatori, a cui risposero con slogan che dicevano “siete i nazi del carbone”. Non è difficile immaginare verso chi battesse il cuore della Wagenknecht.
Ora, questa Weltanschauung (qua ci sta proprio) della Wagenknecht è un po’ un condensato del pensiero massimalista (di sinistra e destra) dell’ultimo decennio almeno, in cui è prevalsa la lettura che la crisi dello Stato-nazione sia opera del mercato e della globalizzazione, in una parola: della finanza, e che alle sirene del liberismo ha sempre opposto l’inno nostalgico dello Stato-che-non-c’è-più sperando che il canto porti alla sua resurrezione, una pratica più sciamana che materialista. È la lettura che propone il conflitto tra popolo (in un’altra versione, il 99%) e élite (l’1%), tra il basso e l’alto, dove il popolo (il basso) è il sentimento della nazione (della comunità che ha sempre le mani callose) e l’alto è il sentimento dei senza-patria e dei senza-Dio (o adoratori del Dio-Mammone).
Sommessamente – io non la vedo proprio così: la crisi dello stato sociale è dipesa tutta dalla crisi del debito pubblico, perché la spesa pubblica (ovvero il debito pubblico) è stato il “patto politico”, vero benefit diffuso, del compromesso popolari-socialdemocratici e lavoro-capitale in Europa, fidando nelle magnifiche sorti e progressive dell’industrializzazione e quindi del consumo di massa di beni di massa, che ha funzionato per i Gloriosi trent’anni, vera età dell’oro, e a un certo punto è esplosa, per diversi motivi concomitanti: non ultimo, il “combinato disposto” di un sentire sociale che non si riconosceva più nel salario del lavoro (nella sua misura, nel suo status, nella sua gerarchia) e, cosa persino meno immaginabile, nelle merci della sua produzione.
Ora, il debito pubblico non è un carico che si distribuisca socialmente, anzi agisce proprio nella ridistribuzione iniqua della ricchezza prodotta – e la possibilità di “allontanare nel tempo” la sua “cedola politica” si è progressivamente decurtata: non potendo certo non onorare i suoi creditori (possessori italiani di titoli e stranieri, “privati” e fondi sovrani), e con l’incubo del default (una cosa all’argentina – l’Italia non è too big to fail, o da rientrare nel novero delle nazioni che chiedono la cancellazione del debito come un paese africano, con raccomandazione viva del papa) non v’era altro modo che tagliare progressivamente e mettere sul mercato tutti i servizi sociali, ovvero tutta la spesa pubblica. Che è stata appunto “acquistata” dai mercati.
La crisi dello stato sociale è perciò anzitutto una crisi fiscale e una crisi fiscale del tutto “nazionale” – in cui poco c’entrano i player globali. C’è un problema enorme di prelievo e di gettito (poi, certo, c’è anche un problema di spesa e investimento – cosa che possiamo toccare con mano nel caso dei programmi del PNRR, comunque un “salvataggio europeo”: e quando mai avremmo trovato rovesciandoci le tasche tutti quei soldi?) Il che ci riporta ai fondamentali: la produzione (alla de-industrializzazione non ha fatto seguito nulla), la riproduzione e il consumo.
Lo Stato in Italia era un grande produttore, e in settori non propriamente secondari – acciaio, chimica, cantieristica navale, filiera agricola, trasporto e mobilità. Ma la crisi dello Stato-produttore (dello Stato-piano) viene da lontano: è la crisi di una forma del capitalismo nell’emergere di nuovi soggetti, nuovi territori, nuove produzioni nell’economia globale. Lo Stato non è un Golem da insufflare per riportarlo in vita: è un costrutto politico-istituzionale-militare che ha accompagnato uno specifico periodo storico della produzione e della riproduzione sociale. Come le monarchie (L’État, c’est moi) è destinato a estinguersi.
E qui veniamo all’altra questione fondamentale: il nazionalismo. La “nazione” non è un dato di natura, ma una costruzione discorsiva, retorica e linguistica (diverso è il “sentimento dei luoghi”, dove nasciamo, cresciamo, pratichiamo una lingua, ci innamoriamo, sono custodite le memorie delle nostre famiglie e l’accumulazione dei nostri ricordi – insomma, la nostra individuazione).
Nell’Ottocento, il concetto di nazione – nella crisi degli Imperi – fu il viatico per il concetto di Stato: nella dissoluzione imperiale, ovvero di un centro lontano di comando e governo, lo Stato non poteva che essere nazionale, prossimo. La nascita delle nazioni era accompagnata da un sentimento di libertà: la meglio gioventù europea dell’Ottocento andava a combattere, e morire, perché ogni nazione, ogni patria, fosse libera dal tiranno, non solo la propria.
Poi, ci fu il nazionalismo aggressivo e guerrafondaio del Novecento: gli altri popoli ci erano ostili. Ora, io penso che la crisi del nazionalismo sia un sentimento virtuoso – e che lo spirito cosmopolita, essere curiosi del mondo e sentirsi a casa propria in qualunque sua parte e praticarne balbettando le differenti lingue, sia la cosa più vicina a un sentimento di umanità universale che oggi si possa immaginare. Benché gli aspetti in cui questo cosmopolitismo si manifesta siano deformi, per così dire – dalla fastidiosa turistizzazione di massa alla grande tragedia delle migrazioni – il punto è che l’attraversamento dei confini, dei limiti, per bisogno o per leisure, è un rimescolamento di razze, etnie, saperi, lingue, che non ha pari nella storia dell’umanità, da quando abbiamo assunto la postura eretta: è il futuro antropologico dell’uomo. La vera sfida sta qui sulla Terra: incontrare finalmente gli alieni.
Altro che nazionalismo: perché sta qui il trucco: il neo-statalismo (à la Wagenknecht) porta con sé inesorabilmente il neo-nazionalismo; il processo, cioè, inverso a quello dell’Ottocento, ma animato dall’aggressività verso gli altri.
Per finire, il mio punto di vista: una nuova economia può nascere solo in chiave europea: non è più tempo di staterelli (qualunque sia la sua grandeur), ma di federazione di liberi e indipendenti territori: una istituzionale distruzione creatrice, distruzione degli Stati, creazione di federazioni. E in questo senso, il cuore delle cose sarà una nuova cittadinanza europea: Allons enfants de l’Europe.

Agosto 2024.

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