Ancora sulla guerra, le guerre.

La guerra è diventata un concetto slabbrato, perché lo Stato è diventato un concetto slabbrato. È dalla guerra intestina continua, il bellum omnium contra omnes, e dalla sua pacificazione che nasce lo Stato, il Leviatano, la nuova sovranità – in un patto di mutuo scambio tra monopolio della forza e sicurezza dei cittadini – perché per una guerra di conquista, di aggressione o di annessione, non serviva lo Stato, ché poteva essere dichiarata e fatta da un principe qualunque, come era accaduto per secoli.
Poi, dall’Ottocento e dal Novecento all’apparire della società di massa il ruolo dello Stato si è modificato: da garante della vita e della proprietà dei cittadini a tutore del loro benessere, dalla culla alla tomba. La lotta di classe, e delle classi, e la violenza politica sostituivano la guerra civile, intestina. La guerra – restava “materia esterna”, nel conflitto tra sovrani e Stati. È con la rivoluzione del ’17 che le cose si intrecciano: rovesciare la guerra in rivoluzione: la guerra, da fattore esterno, viene portata “dentro”.
La conquista dello Stato diviene così il focus delle politiche del Novecento – in un continuo intreccio tra putsch, insurrezioni, guerre civili, lotte di classi, esercizio elettorale, guerra per bande di “liberi corpi”, dove la violenza politica diventa “domestica”, a volte addomesticata a volte tracimante. Il monopolio della forza non è più nelle mani dello Stato.
È con la fine della Seconda guerra mondiale che viene stabilita la fine delle guerre civili ovvero della violenza politica in Europa, prima ancora che la fine delle guerre esterne tra Stati. È quella che chiamiamo democrazia liberale. È quella che chiamiamo la “guerra fredda”, che congela non solo l’esplicitarsi di conflitti nazionali in guerra convenzionale ma l’esplodere dei conflitti interni.
Una delicata architettura che va in pezzi all’implosione dell’Unione sovietica, il principio della reductio ad unum di ogni dialettica sociale e statale, il cui effetto ravvicinato più tragico e drammatico di quel puzzle di nazioni e etnie e lingue in un’unica cornice e in unico “disegno” dove però le tessere non combaciano più l’una con l’altra, sarà l’esplosione della ex Jugoslavia: qui, il conflitto che si apre non assume il carattere della lotta di classe e delle classi e della violenza politica ma immediatamente quello della guerra, una guerra ibrida, perché è guerra civile, etnica, religiosa e guerra convenzionale: ogni limite è presto superato, come se tutta la capacità umana di compiere orrori si fosse accumulata dormiente e avesse ora “libero mercato”.
La guerra fredda, perciò, muore nella ex Jugoslavia; muore a Sarajevo – singolare bizzarria della Storia, che a Sarajevo, con l’assassinio dell’arciduca, aveva scatenato l’inferno in Europa. Ma a Sarajevo muore anche lo Stato europeo, ovvero la composizione di interessi diversi e confliggenti sul principio ad excludendum della guerra civile. Sarajevo è il controcanto della caduta del muro di Berlino e della riunificazione della Germania. Il mondo multipolare, non più ricomponibile, non più riducibile appare a Sarajevo: la guerra civile è di nuovo possibile nel cuore d’Europa.
E questa d’altronde è la guerra di Putin: nella sua narrazione, l’Ucraina non esiste come Stato autonomo e indipendente, non è mai esistito; è territorio russo – e gli ucraini sono “fratelli”; la sua, di Putin, non è una guerra convenzionale – benché convenzionali siano le armi in campo: battaglioni e reggimenti, aerei e droni, carri armati, missili, bombe – e non è un conflitto tra Stati-nazione, ma una “operazione speciale di polizia”, proprio come accade in una guerra civile fra “fratelli”: si tratta solo di mettere a tacere i facinorosi. Putin tratta Zelenski come fosse il brigante-capo di una banda armata, a cui non dà alcuna legittimità, e non il presidente di uno Stato; il presidente, ad interim, dell’Ucraina è lui medesimo, Putin
Ne viene, da questo, che altrettanto slabbrato del concetto di guerra è quello di pace. Perché noi riconduciamo il concetto di pace a quello di trattative, di iniziative diplomatiche, di concessioni di territori, di armi che tacciono e di eserciti che si ritirano – riconduciamo cioè il concetto di pace a un concetto convenzionale. Se la guerra è convenzionale, la pace è convenzionale; ma se la guerra non è convenzionale?
Qual è dunque, in questo apparire della guerra come comune quotidianità terribile – dove si sovrappongono le immagini recenti degli assalti ai centri migranti in Gran Bretagna a quelle del 6 gennaio a Capitol Hill, le immagini di Bucha e Mariupol a quelle di Gaza e del kibbutz di Kfar Azza; dove cioè si sovrappongono i termini guerra ibrida, guerra sociale, jihad, guerra asimmetrica, guerra sproporzionata che vanno a sommarsi a quello di guerra umanitaria – qual è dunque, in questa guerra civile mondiale, il punto di vista, la leva concettuale che non ci renda solo spettatori inerti, o inutilmente vocianti, gettati dentro il conflitto più spaventoso della storia dell’umanità?

Agosto 2024.

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