
Quando apparve Orientalismo di Edward Said, 1978, il lungo percorso teorico che era iniziato con Frantz Fanon e I dannati della terra si poteva dire sistematizzato: imperialismo e colonialismo europei avevano “costruito” una idea di oriente, ovvero dei mondi che avevano conquistato, sfruttato e razziato, che giustificava il loro destino manifesto: l’occidente era una civiltà superiore, di invenzioni, benessere e democrazia (con qualche parentesi autoritaria); l’oriente era luogo di costumi depravati, viziosità incancrenite, violenze ataviche e irredimibili, dispotismi inaccettabili. Il razzismo, verso tutto ciò che non era “bianco”, ne era un effetto collaterale, implicito o esplicito, tollerante o aggressivo. Capivamo anche che il lungo colonialismo aveva finito con l’instillare nell’animo dei colonizzati un sentimento di inferiorità e una pratica di servilismo: il “costrutto ideologico” aveva cioè prodotto esattamente quelle che erano le sue premesse, un diabolico Uroboros.
Per la generazione che si affacciò alla politica e insieme alla vita, diventando assai velocemente adulta, sulla fine degli anni Sessanta, tutto questo era fin troppo evidente: l’America invadeva il Vietnam, fomentava colpi di stato in America latina, sosteneva regimi autoritari e assassini ovunque, manteneva infine il proprio ordine interno basato su una “clausola di esclusione” degli afro-americani dall’happiness per tutti che garantiva la sua Dichiarazione. L’America era l’epitome dei colonialismi francese, tedesco, belga, inglese, portoghese lungo tutto l’ottocento e il primo novecento: non avrai altro imperialismo al di fuori di me – era il comandamento.
Ma le Black Panthers leggevano il Guevara di Due, tre, molti Vietnam e andavano in Africa per incontrare i loro fratelli, e a molti di quella generazione sembrò che fosse questa la via della seta rivoluzionaria: il terzomondismo, le lotte dei popoli oppressi, i palestinesi – se una rivoluzione era possibile non poteva accadere nel nostro mondo, nel nostro occidente opulento e assopito; lo scandalo delle nostre vite grasse aveva lì il suo drammatico fondamento, era questa la parresia.
Sempre a quella stessa generazione non sfuggiva però che il baluardo del socialismo mondiale, l’Unione sovietica, la fortezza assediata, nel suo opporsi ovunque all’imperialismo americano e nel sostenere le lotte di liberazione nazionale, dal nord-Africa all’Asia, dal Medio-oriente all’Africa sub-sahariana, avesse sviluppato nei confronti della propria area geopolitica, “ereditata” dalla fine della Seconda guerra mondiale e dal trattato di Jalta, un sistema di dominio imperiale – l’Ungheria, la Germania dell’est, la Polonia e infine la Cecoslovacchia erano vere e proprie colonie: ci fosse qualche dubbio, i carri armati russi illustravano bene come stavano le cose. I regimi dell’est europeo governavano per procura di Mosca e al servizio di Mosca. Non avrai altro socialismo all’infuori di me – era il comandamento: uno Stato che si prende cura di te dalla culla alla tomba, che fustiga il concetto di libertà in nome dei bisogni collettivi, ci apparse un incubo totalitario, il buio a mezzogiorno.
Per tanti era sufficiente che ci fosse comunque “qualcosa” di altro dall’impero americano: in nome di questa approssimativa “realpolitica” i carri armati russi erano sempre liberatori – non issavano forse la bandiera rossa? – e ogni tentativo di opporsi era il frutto malefico di un qualche complotto americano. Le liberazioni nazionali andavano bene se erano contro l’occidente capitalista, e regimi da esso sostenuti; perché mai i cecoslovacchi avrebbero dovuto aspirare a una propria sovranità nazionale contro un popolo fratello, quello russo, se non perché fomentati dal fascismo mondiale?
Per molti tutto questo non bastava e aveva venature orribili di ipocrisia borghese e gesuitica obbedienza: sarà stato per quello che ci innamorammo della Cina: era esotica abbastanza, e di millenaria civiltà, per affascinare il nostro sguardo anti-orientalista; era estremamente misera per rassicurare il nostro francescanesimo essenziale; e attestava una sua purezza nella polemica contro il socialismo sovietico e il compagno Togliatti – le guardie rosse, la rivoluzione culturale, bombardare il quartier generale – che rafforzava il nostro dogmatismo necessario, ma sembrava anche ereditare lo scarto, l’incompiuto, l’eccedenza, il fallimento delle insurrezioni europee: dalla Comune alla Repubblica ungherese dei Consigli, dallo spartachismo di Rosa e Karl ai marinai di Kronstadt, tutto precipitava nell’esperienza cinese. O almeno ci sembrava così.
Il maggio del ’68 – la generazione nata dopo la Seconda guerra mondiale, vissuta nella pace e in un progressivo benessere che un capitalismo affluente che ci inondava di merci e un riformismo socialista che lo cogestiva ci garantivano, e che si era ribellata contro l’autoritarismo, il conservatorismo, l’obbedienza, l’ossatura ideologica che teneva insieme tutto e a cui erano sottomessi i nostri ruoli sociali e i nostri generi, i nostri corpi e le nostre vite – sembrava inverarsi nelle basi rosse dei piccoli villaggi contadini dello Hunan e nei loro medici “dai piedi scalzi”: servir la cause du peuple.
Tutto questo nostro “piccolo mondo antico” di certezze e perplessità, di durezze e fragilità, è stato spazzato via da una serie di eventi enormi.
Quattro: 1) la caduta del muro di Berlino (1989), il fallito golpe del 1991 e la fine del tentativo di Gorbaciov di riformare la Russia con la perestrojka e la glasnost, “l’esperimento Eltsin” e l’arrivo di Putin (1991-1999), segnato subito dalla terribile guerra in Cecenia; 2) il massacro di piazza Tienanmen (4 giugno 1989) che “completa” il lungo percorso della chiusura del maoismo e della “eccezione cinese” iniziato con il processo alla “banda dei quattro” (1981) e il Boluan Fanzheng di Deng (1977) ovvero: “eliminare il caos e tornare alla normalità”, semplificato in: “il gatto bianco o nero purché acchiappi i topi”, che seppellivano definitivamente il lascito della brevissima esperienza della “Comune di Shangai” (1966); 3) l’interminabile decennio di guerra nell’ex Jugoslavia (1991-1999), la prima in Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale, e nello stesso tempo la più “ricorrente” delle guerre europee di sempre, con l’apparire di un esasperato nazionalismo su base etnica e religiosa (come se la pace di Vestfalia, 1648, e la sua cuius regio eius religio non ci fosse mai stata), che poneva tristemente fine a uno degli esperimenti sociali, economici e politici più interessanti e al Movimento dei non allineati dopo la morte di Tito, tra stupri di massa, fosse comuni e pulizia etnica: l’orrore, che si ripresentava fuori dalla Storia, ricorrente a ogni tempo; 4) l’attentato alle Torri gemelle (11 settembre 2001) per mano di al Qaeda e del fondamentalismo islamico di bin Laden che si poneva come “soggetto politico” nei confronti del mondo arabo chiamandolo alla jihad contro l’occidente; quasi un “gemellaggio” con quello di Oklahoma City (19 aprile 1995) per mano di Timothy McVeigh, ovvero il terrorismo “interno” anti-americano di una destra reazionaria e fascista che assumerà poi le vesti “politiche” dell’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021.
La guerra dispiegata con il carattere di “guerra civile” (una sorta di “paradigma Ruanda”) era ormai una possibilità che si riproduceva e si riprodurrà in focolai circoscritti che non divampano in guerra mondiale – nell’impotenza di una qualunque forza di interposizione di pace e in un “confronto” fra potenze che si muovevano ancora indirettamente l’una contro l’altra, e che avevano comunque un fronte comune contro la preminente “minaccia fondamentalista”. Che attinge il cuore dell’occidente tutto ormai – da Madrid a Parigi a Londra. Quando questa sarà “contenuta”, il confronto sarà inevitabilmente diretto.
E tutto questo mentre accadono e muoiono le primavere arabe nel 2011, innescate dal clamoroso gesto di protesta di Mohamed Bouazizi, un giovane venditore ambulante tunisino che il 17 dicembre 2010 si era dato fuoco nella cittadina di Sidi Bouzid, e che a macchia d’olio si muovono in Tunisia, Egitto, Marocco, Libia, Yemen, Bahrein, Oman – con risultati disastrosi nell’avvento e nel rafforzamento di regimi autoritari, di conflitti insolubili, di massacri di massa. Come in Siria e in Iran. L’occidente è impotente o si gira dall’altra parte.
Il Terzo mondo è in realtà un “inferno in terra”, da cui si fugge – dall’Africa all’Asia, dall’Est europeo dall’America centrale e latina – inseguiti dalle guerre e dai conflitti, dalla povertà e dalla paura, confidando in una speranza di benessere per sé e i propri figli che solo l’occidente sembra garantire. Non per tutti. È questo esodo il fenomeno politico più epocale che apre il secolo e il millennio – il “quinto o sesto stato” di un nuovo Pellizza da Volpedo che cerca diritti e cittadinanza universali: il migrante; l’uomo errante, spogliato di tutto, spatriato, lingua tagliata, nuda morte, senza nome neppure, quando annega o spira in un container: anonymus; disarmato milite ignoto di una invasione non voluta, non perseguita, ma vittima dei sistemi di difesa di un occidente che si sente fortezza assediata.
L’antioccidentalismo è oggi un sentimento retrivo e reazionario, virato com’è, da un lato, in un fondamentalismo religioso che assume la forma del dominio assoluto sui corpi e sulle menti, e, dall’altro, in un mistero di oscurità, dove regnano intrighi e complotti di cui solo sette di Illuminati posseggono “la luce rivelatrice contro il pensiero unico”, che si rivolta contro il paradigma della scienza, contro il pensiero scientifico, a cui, peraltro, siamo debitori proprio per averci aiutato a capire il funzionamento dell’occidente, ovvero dell’accumulazione del capitale e le strutture e le sovrastrutture e la microfisica del potere – ciò che insomma “configura” il mondo com’è e come vorremmo non fosse.
“Frazioni” di questo sentimento antioccidentale sono l’antiamericanismo e l’antieuropeismo, sentimenti poveri proprio nel loro assolutismo totalizzante – dove ciò che è caduco (lo Stato, il governo, le forme dell’economia) diventa “tratto antropologico” di un popolo, la storia che si fa etnia. Altrettanto poveri, d’altronde, sono stati l’antigermanesimo e il misogallismo, l’antislavismo e l’antiarabismo. Eppure, in questo paese siamo stati anche germanofili e francofili – nell’ottocento e nel novecento – come siamo stati anglofili, guardando con ammirazione i costrutti politici e le istituzioni, lo sviluppo e la potenza economica, il modo di vivere e la produzione culturale e l’associazionismo del lavoro di Germania e Francia e Gran Bretagna, e ricavandone indicazioni e ricalcandone processi e forme. Ciò che accomuna questi sentimenti con l’antislamismo e l’antisemitismo è il comune tratto “religioso” che è pervasivo e identitario e chiama alla crociata ossessiva, senza requie, a un desiderio di distruzione. Di annichilimento. Non è vero, e magari fosse vero – ma “l’occidente” nella narrazione del fondamentalismo e delle destre reazionarie è troppo tollerante, troppo libero, troppo femminilizzato, troppo paritario, troppo laico, troppo mulatto. Troppo debosciato – il protestantesimo luterano e calvinista non era perciò il suo lievito, ci sbagliavamo.
Il “racconto dell’occidente” del fondamentalismo e delle destre ricalca oggi, paradossalmente, rovesciandolo, “l’orientalismo” di Said.
20 giugno 2023.