Quello che non è successo a Parigi e quello che succederà

13-novembre-parigiSe i tre attentatori che si sono fatti esplodere fuori dallo Stadio di Francia fossero riusciti a completare il loro piano, oggi piangeremmo molti più morti, e le scene di panico, la ressa per fuggire, il calpestarsi l’un l’altro in un tentativo di salvezza, ci lascerebbe sgomenti e indifesi. Avremmo visto. Avremmo visto davvero il nostro terrore. Forse il piano era quello: due uomini-bomba dentro lo stadio, a farsi esplodere, il panico, la fuga, il terzo uomo-bomba a aspettarli fuori i tornelli, nei piazzali, e esplodersi. Non c’è via di scampo. Era questo l’obiettivo dell’attacco a Parigi: colpire il nostro cuore. Avrebbero voluto fare a noi quello che i nostri droni, le nostre bombe fanno sui loro villaggi, sulle loro case, sulle loro strade. Non c’è via di scampo. In parte ci sono riusciti. Solo in parte. Nessuno ha visto niente. Noi immaginiamo. Solo i testimoni diretti dei tre assalti sanno adesso cosa significa essere sotto assedio. Tutti noi, tutti noi spettatori, no. La Francia, l’Europa, il mondo inorridisce, ma noi non sappiamo davvero quanto possa essere profondo l’orrore. Noi non viviamo, in genere, sotto le bombe. Abbiamo messo assieme un’Europa rabberciata proprio per non vivere mai più sotto le bombe. Se avessimo visto, in diretta, durante la partita di calcio Francia-Germania, le esplosioni sugli spalti e l’orrore che ne sarebbe seguito, oggi i nostri cuori tremerebbero. Non solo perché ci sentiremmo ancora più indifesi – essere riusciti a compiere un attentato dove c’era il presidente francese, con un livello di sicurezza altissimo – ma perché ci sentiremmo terribilmente umani e fragili. Noi non sappiamo più odiare. Odiare è una cosa faticosa, che ti impegna la vita, e la nostra vita è piena di affari da sbrigare. O almeno, sembra così. Così, deleghiamo a alcuni di odiare per noi tutti. I loro cuori invece si nutrono delle nostre bombe, i nostri droni alimentano il loro odio. Loro sanno odiare. Le loro vite sono inzeppate di odio. Siamo stati noi a insegnarglielo. La Francia ha subito reagito: i loro Mirage si sono alzati in volo e hanno bombardato Raqqa. A tappeto. Non c’è via di scampo. Non sappiamo quanti morti le nostre bombe abbiano fatto ieri l’altro su Raqqa, per ritorsione dopo gli attentati di Parigi. Lo sapremo presto. Quando altri shahid imbottiti d’esplosivo verranno a presentarci il conto.

Il perossido di acetone è un esplosivo primario. È molto instabile, ma non è impossibile produrlo in forma domestica. I suoi elementi sono facilmente reperibili: acqua ossigenata, acetone, acido solforico o cloridrico. È sensibile all’urto, al calore, alla frizione, e non puoi conservarlo a lungo. Puoi produrlo e maneggiarlo solo se non hai paura per la tua vita, solo se metti in conto la tua morte. Gli attentatori di Londra lo usarono. Quattro bombe di quattro chili l’una, per tre stazioni della metropolitana e un autobus a due piani: luglio 2005, cinquantasei morti, settecento feriti. Anche gli attentatori di Parigi – sembra così, al momento – lo hanno usato. Anders Behring Breivik, il Cavaliere cristiano templare che uccise nella sua “operazione di martirio” – così la chiamava nel suo memoriale, anche se si arrese subito alla prima pistola puntatagli contro – settantasette persone tra Oslo e l’isola di Utoya nell’estate del 2011, usò invece, per la sua autobomba piazzata sotto le finestre del primo ministro norvegese, del fertilizzante. Lo ordinava per telefono: marca Yara Mila della qualità Fullgjoedsel. Se lo faceva consegnare alla sua fattoria, una casetta bianca di legno, con annesso un granaio dipinto di rosso. Cartolina dalla campagna norvegese. Anche Timothy McVeigh riempì il suo camioncino Ryder di fertilizzante. Ci aggiunse il nitrometano, un combustibile altamente infiammabile: è facilmente reperibile, a esempio si usa per le macchinine del modellismo. Era l’aprile del 1995, prima dell’11 settembre. Nell’attentato di Oklahoma City morirono centosessantotto persone e oltre ottocento restarono ferite. Tutto da solo: un rapporto tra potenza di morte e organizzazione assolutamente ineguagliato. McVeigh aveva combattuto in Iraq con onore, e aveva ricevuto diverse onorificenze: la Bronze Star Medal, il National Defense Service Medal, il Southwest Asia Service Medal, il Non-Commissioned Officer Professional Development Ribbon, l’Army Service Ribbon e il Kuwait Liberation Medal. Tra le motivazioni del suo gesto contro il Murrah Federal Building di Oklahoma, disse: «In primo luogo, l’attentato era un gesto di rappresaglia […] Quando una forza nemica lancia continui attacchi da una specifica base operativa, è una buona strategia militare portare la battaglia in campo nemico […] Far saltare in aria il Murrah Federal Building era moralmente e strategicamente equivalente alle azioni militari degli Stati Uniti». Una dichiarazione che probabilmente, parola per parola, potrebbero sottoscrivere gli attentatori di Parigi. Ci siamo fatti molti nemici, nel tempo. Fondamentalisti islamici e crociati cristiani. Fuori le mura della nostra fortezza, e dentro casa. A volte sembra che si parlino tra loro, a suon di bombe. E non è obbligatorio usare una bomba intelligente all’uranio impoverito per fare centinaia di morti.

Anche Mohamed Bouazizi è stato un martire. Non della jihad ma di una guerra assolutamente privata, per la sopravvivenza sua e della sua famiglia. Bouazizi era l’ambulante tunisino che si diede fuoco a Sidi Bouzid, una cittadina rurale dove viveva, dopo il sequestro della sua merce e dei suoi strumenti per la vendita della frutta. Era esasperato. Andò dal governatore, per avere indietro la bilancia e la carriola, ma quello non gli diede retta. Bouazizi comprò una tanica di benzina dal distributore del paese – una cosa facile da reperire – e si diede fuoco. Era il 17 dicembre del 2010. Bouazizi ci mise diciotto giorni per morire, il 4 gennaio del 2011. Il suo funerale fu l’inizio della rivolta in Tunisia, che arrivò a cacciare il presidente Zine El-Abidine Ben Ali, dopo ventitré anni di regime. Ma fu tutto il nord Africa a esplodere, una nazione dopo l’altra, l’Algeria, l’Egitto, la Siria, lo Yemen, la Libia. Il mondo era stupefatto. Il mondo era entusiasta di quella primavera, della rivolta dei gelsomini. Era la grande rivolta politica contro il fondamentalismo. Le intelligence non l’avevano prevista – loro sanno di complotti, ma la rivolta non appartiene ai complotti e all’intelligence -, e i governi occidentali non avevano piani, né un piano A né un piano B. Avevamo anche paura di quella destabilizzazione: sapevamo come trattare con i nostri figli di puttana, i dittatori che stavano qui e là a tenere buone le cose per noi. Siamo stati colonialisti per secoli, orribilmente; poi abbiamo appoggiato i nazionalismi dei dittatori, i regimi dei Bokassa, degli Idi Amin dei Siad Barre, dei Mubarak, dei Saddam Hussein, degli Assad, altrettanto orribilmente. Ci tenevano le cose buone per noi. Ora, che ne potevamo sapere di questa democrazia araba? Potevamo fare la guerra, come in Iraq – anche due volte – o in Afghanistan. Questo sapevamo farlo, questo potevamo capirlo. Noi non abbiamo mai smesso di fare le guerre. Il mondo è pieno di scenari di guerra. È pane per noi. Bombe, scarponi sul terreno, droni: era un piano. E senza un piano le potenze occidentali non si muovono. Così, abbiamo abbandonato la primavera araba al suo destino, quello di soccombere al fondamentalismo. E poi, abbiamo dato una riverniciata a un qualche nostro figlio di puttana perché ci salvasse dal fondamentalismo, come è successo in Egitto. Senza un piano le potenze occidentali non si muovono: è quello che vanno ripetendo in questi giorni. Anche se a volte funziona e a volte no, e a volte sembra fatto apposta per non funzionare. Bisogna che ci si metta d’accordo tutti, per togliersi dai piedi l’Isis e nominare qualcuno che tenga le cose buone per noi, sennò che andiamo a fare? Cos’altro potremmo dare a quelli con l’asciugamano arrotolata sulla testa, se non qualcosa che capiamo e possediamo, un piano buono per noi?

Gli ultras della guerra ineluttabile – persone in genere ineffabili, per nulla sguaiate e dai commenti ponderati – hanno preso di mira, in questi giorni, il pacifismo, il buonismo, la sinistra. Non quella dei movimenti contro la guerra, si presume. I movimenti contro la guerra non fermarono l’intervento in Kosovo e non fermarono la guerra in Iraq e Afghanistan, benché nel loro momento più esteso e partecipe fossero stati definiti dal «New York Times» la seconda potenza mondiale. I movimenti contro la guerra, in genere, non fermano le guerre decise dai governi. Sono i movimenti interventisti, piuttosto, che spingono i governi alle guerre. Peraltro, il tabù della guerra, nella storia recente, è stato infranto proprio dalla sinistra al governo: fu D’Alema che divenne presidente del Consiglio per dichiarare la guerra alla Serbia. E da allora non ci siamo mai fermati, in una democrazia dell’alternanza. La critica al pacifismo e al buonismo – come fosse il nostro “nemico interno”, la nostra “quinta colonna” – sembra perciò abbastanza capziosa. Si va raggrumando, piuttosto, un movimento di opinione interventista. Democratico, è ovvio. Repubblicano, è ovvio altrettanto. Non odia di principio – l’odio non si porta con eleganza – ma odia per necessità. Se c’è qualcosa che suona politically correct in questo momento è il clangore delle voci di guerra. La motivazione forte è che occorra oggi essere interventisti – il che significa pure assolutamente contrari a qualsiasi politica dell’accoglienza – perché la guerra non diventi il sentimento maggioritario guidato dalle destre. Farsi ultra della guerra per sottrarla alle destre. È un’idea abbastanza pasticciata e confusa, però suona bene. È intellettualmente engagé. Avrei due obiezioni, di nessun rilievo ideologico o teorico: la prima, è che se c’è una qualche opinione con cui questo interventismo dovrebbe scontrarsi non è con il pacifismo, che sembra, a guardarsi intorno, una cosa hipster, piuttosto con il cattolicesimo, quello contingente guidato da papa Francesco che, forse non casualmente, è stato in questi giorni particolarmente appartato, magari in preghiera. In parte, lo sta già mettendo in conto, liquidandolo così: l’interventismo è laico e terreno, il buonismo è religioso e ultramondano. Con buona pace delle alleluia laiche per le grandi innovazioni di questo papa. La seconda, è che questo interventismo dovrà aspettare le elezioni americane e il nuovo presidente. A occhio e croce, è difficile che un marine americano vada a morire per l’estroso ciuffo di Donald Trump. E è difficile che la destra repubblicana espressa dai Tea Party – i Rand Paul, per dire – accetti di impegnarsi di nuovo in un qualche conflitto oltreoceano mettendo gli scarponi sul terreno. Dovrà, questo interventismo europeo, augurarsi che Hillary Clinton vinca. Hillary Clinton ha tutta l’aria di poter essere il leader dell’interventismo democratico non pacifista e non buonista. Europeo. Un po’ come fu per il marito e la Serbia, e la guerra umanitaria e le bombe intelligenti e gli effetti collaterali. Una cosa che ci suonerebbe familiare, con una certificazione, una garanzia, ecco.

Mi manca molto la voce di André Glucksmann in questi giorni. In questi giorni in cui l’interventismo europeo repubblicano e democratico, non pacifista e non buonista, in attesa di un leader americano disposto a mandare i marines sul terreno, ha rapidamente riconsiderato la figura di Putin e il ruolo della Russia come centrale e determinante. Che è, per inciso, quello che ha sempre pensato, detto, fatto Berlusconi, che non godeva di gran prestigio tra gli intellettuali francesi, nonostante cantasse le loro chansons a ogni occasione, proprio per questo. Quando intervenimmo in Serbia, Milosevic restò senza protettori, la Russia era debole. Quando intervenimmo in Iraq, Saddam Hussein restò senza protettori, la Russia era ancora debole. Con Assad è diverso: Assad ha un protettore, e la Russia è di nuovo forte. Mi manca molto la voce di Glucksmann, perché pur essendo un interventista democratico determinato non si batteva prendendo in considerazione se era già pronto un piano A e un piano B di riserva, ma per i valori repubblicani. Per i valori repubblicani stava dalla parte dei ceceni; che fossero fondamentalisti islamici non sembrava turbarlo. I valori repubblicani erano tutti nello schierarsi contro Putin e la Russia. I valori repubblicani prescindono dalle considerazioni tattiche, è la lezione di Aron. È per questo che Glucksmann e Henry-Levy apprezzarono molto l’intervento francese in Libia contro Gheddafi, e riconobbero a Sarkozy doti di grande statista repubblicano. È per questo che erano infastiditi dalle titubanze di Hollande in Siria – non parliamo poi di quelle di Obama, che ha sempre guardato con sussiego alle crisi mediorientali e fissato lo sguardo piuttosto a quello che a lui sembra strategico, il Pacifico. Glucksmann e Henry-Levy non hanno mai pensato che noi potessimo avere dei figli di puttana che facessero il lavoro sporco per noi. Assad non era certo il loro figlio di puttana. Il punto è che ora è Putin il nostro figlio di puttana. E questo non sembra turbare il sonno dei nostri interventisti democratici e repubblicani. Oplà. D’altra parte, un’alleanza così – dalla Russia agli Stati uniti, passando per frammenti d’Europa – non si vedrebbe dai tempi della Seconda guerra mondiale nella guerra al nazismo. E questa è forse una considerazione interessante, se non per definire “il nemico”, quanto meno per definire noi stessi e le nostre categorie nell’accettare l’ineluttabilità della guerra. L’Europa è invasa, dall’Atlantico agli Urali, da profughi che un giorno diventeranno terroristi e da terroristi che si mascherano da profughi. La Francia ai francesi, la Russia ai russi, la Gran Bretagna agli inglesi, e via discorrendo. L’Europa nata dalla Seconda guerra mondiale per ripudiare le guerre, si ricostruisce attraverso le sue nazioni in una Santa alleanza di guerra. Più o meno è proprio quello che si aspettava il Gran Califfo dell’Orrore, Abu Bakr al Baghdadi.

Nicotera, 18 novembre 2015

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